Un esperto di cabala o di numerologia ci potrebbe scrivere un trattatello: il 7 novembre Joni Mitchell festeggia il compleanno numero 77. E lo fa da vera artista – cantautrice ma anche pittrice – qual è: cioè mettendo a disposizione degli amanti della musica doc e dei fan un magnifico regalo.
Stiamo parlando dei cinque cd di Joni Mitchell Archives vol. 1: The Early Years (1963-1967) (Rhino, distribuzione Warner). Il cofanetto è il capitolo iniziale di una serie di box che usciranno prossimamente, offrendo attraverso contenuti inediti e rari una full immersion nei diversi periodi della carriera della “signora del canyon”. Qui siamo nella fase giovanile della canadese, ancora legata alle radici folk. Eppure la sua inconfondibile e cristallina voce da soprano aveva già tutte le caratteristiche che, con il passare del tempo, avrebbero stregato anche il pubblico del pop sofisticato e del jazz. Pensiamo a capolavori del cantautorato chic come Hejira, del 1976. Oppure a Mingus, realizzato in collaborazione con improvvisatori quali Wayne Shorter ed Herbie Hancock, dedicato al grande vecchio della musica nera, il contrabbassista Charles Mingus. Desideroso di collaborare con l’artista, il maestro le propose di scrivere i testi su alcune musiche da lui composte in vari periodi della sua carriera, tra i quali la celebre Goodbye Pork Pie Hat. Gravemente malato, Mingus se ne andò prima che l’album venisse completato. Ma, ricorda lei, fece in tempo a sentire «tutte le canzoni tranne una, God Must Be a Boogie Man: sono sicura che il titolo l’avrebbe fatto ridacchiare». Ascrivibile in senso lato all’universo del jazz orchestrale, è Both Sides Now (2000), che parla delle relazioni sentimentali attraverso l’interpretazione di alcuni standard da parte della Mitchell. E sulla stessa lunghezza d’onda è l’emozionante Travelogue: uscito due anni dopo fotografa Joni – la voce lievemente increspata dalle troppe sigarette, ma forse ancor più ammaliante – alle prese con un arrangiamento “sinfonico” dei suoi successi, da Woodstock a The Last Time I Saw Richard, da For the Roses a The Circle Game.
Ebbene proprio The Circle Game – che la Mitchell registrò in uno dei suoi dischi top, Ladies of the Canyon, del 1970 – fa bella mostra di sé in versione embrionale nel cofanetto di cui parliamo. Che è un ritratto dell’artista da giovane, anzi da giovanissima. Eh sì, perché nel 1963 la cantautrice di Fort Macleod era solo una ventenne conosciuta con il suo nome di battesimo, Joan Anderson. Il brano che apre la raccolta è House of the Rising Sun, prima performance della musicista, registrata per la radio canadese cinquantasette anni fa. Voce, chitarra e basta: meno di tre minuti, ma quanta emozione. Certo, era una Joni ancora acerba e manifestava un debito nei confronti della più precoce e già affermata Joan Baez. Nei cinque cd ci sono parecchie curiosità e perle per gli aficionados della cantautrice, tra cui Michael from Mountains e I Had A King, poi inseriti nel disco di esordio della Mitchell (Song to a Seagull, 1968). Senza dimenticare la cover di Sugar Mountain di Neil Young, altro grande canadese specializzato nel saccheggiare i propri archivi.
Joni ha sempre considerato riduttiva per lei l’etichetta di cantante folk, vista la sua evoluzione successiva. Non a caso, diversi artisti jazz hanno ripreso le hit del suo repertorio: di recente lo ha fatto la svedese Rigmor Gustafsson nel disco Come Home (Act, distribuzione Egea), cimentandosi con buoni risultati nella rilettura di Big Yellow Taxi. Eppure la versione della Mitchell – che nel 2015 è stata colpita da un aneurisma cerebrale – è ancora oggi inarrivabile. E allora cantala ancora, Joni! E buon compleanno…
Ivo Franchi