Non ha convinto del tutto la messinscena del capolavoro straussiano, dal 15 al 20 febbraio al Teatro Comunale di Bologna, dopo nove anni di assenza. Sul podio un notevole Juraj Valčuha, che ha confermato il successo riscosso a inizio mese con la direzione al Teatro Manzoni di Bologna della Sinfonia n. 6 di Gustav Mahler.
Se l’interpretazione del direttore è apparsa ricca di sfumature, ciò che ha reso meno interessante quest’allestimento dell’opera straussiana è stato forse il non adeguatamente meditato ripensamento del fortunato allestimento del 2010, in quest’occasione riproposto. È così sembrato che, dopo quasi un decennio, la carica travolgente di quello spettacolo non sia stata rinnovata.
Non del tutto convincenti sono apparsi alcuni dettagli della messinscena ed alcune scelte registiche. La visione scarna, frammentata e ponderata di Lavia, che ha dichiarato che Salomè «in linea di massima debba “fare” pochissimo», non ha restituito al pubblico la resa magmatica che la partitura ed il libretto di quest’opera certamente contengono in sé.
La sibillina carica dissacrante e la corrosività “a fior di pelle” della partitura straussiana non sono stati avvertiti né nella notissima “Tanz der sieben Schleier”, né nella catastrofica scena finale: poco efficace è risultata la gestione degli attimi glaciali e terrificanti durante i quali Giovanni Battista viene ucciso fuori scena (attimi che la musica di Strauss e il libretto di Hedwig Lachmann invece fortemente evocavano) e poco interessante l’apparizione finale sulla scena di un gigantesco volto del Battista, arrampicandosi sul quale Salomè inscena il bacio necrofilo che ne provocherà la cruenta uccisione.
Le scene minimali di Alessandro Camera, i costumi di Andrea Viotti e le luci di Daniele Naldi hanno destato interesse, ma non hanno stupito lo spettatore. È mancato l’accessorio scenico della lente d’ingrandimento che, nell’allestimento del 2010 aveva suscitato coinvolgimento nella sua valenza scenica e simbolica.
La scelta registica di Gabriele Lavia, che ha incardinato l’azione sul potere creativo e distruttivo della voce, verbum che salva, che affascina e terrorizza, a svantaggio di una regia focalizzata sull’esteriorità del gesto e sul dinamismo, ha certamente colto un aspetto originale dell’opera, ma non ha reso giustizia al dramma psicologico ed erotico di Salomè.
Il giovane soprano lituano Ausrine Stundyte (che quest’anno interpreterà la parte della protagonista anche alla Wiener Staatsoper e alla Staatsoper Unter den Linden di Berlino) ha conferito alla sua Salomè un certo fascino. Tuttavia, la cantante non sembra essersi calata appieno nella parte, la cui resa è apparsa poco credibile sia sul piano scenico, sia su quello vocale, priva di quella spinta, irrazionale e sanguigna, che fece della pièce di Oscar Wilde e dell’opera di Strauss due dei più grandi scandali teatrali del secolo scorso.
Espressivi e pertinenti Tuomas Pursio nella parte di Jochanaan e Ian Storey nei panni di Erode. Meritano di essere citati anche Enrico Casari (Narraboth) e Silvia Regazzo (Paggio di Erodiade). La parte più coinvolgente e riuscita si è rivelata comunque l’Erodiade di Doris Soffel: appassionata e spietata, l’interpretazione del soprano è sgorgata da una piena comprensione del personaggio straussiano, vero polo di malvagità e perversione nella rete dei personaggi dell’opera.
Juraj Valčuha (che, si ricorda, è stato insignito del “Premio Abbiati” 2018 come Miglior Direttore d’orchestra) ha così confermato il successo riscosso dalle altre produzioni da lui dirette al Comunale, come la prima assoluta del Peter Grimes di Benjamin Britten dello scorso maggio o la proteiforme Jenůfa di Leóš Janáček sotto la regia di Alvis Hermanis.
Nella direzione ravvicinata della Sesta mahleriana e dell’opera di Strauss, egli ha quindi dimostrato di aver interiorizzato i tratti che accomunano o distinguono nettamente i due autori, proponendo al pubblico un’interpretazione convincente e dinamica.
Una Salome fra luci e ombre che, più che un fallimento, suona come un mancato successo, privo di quella tremenda, cristallizzata e devastante “tensione verso” che dell’opera straussiana è ancor oggi uno dei massimi e più affascinanti caratteri.
Immagine di copertina Ph. AndreaRanzi-StudioCasaluci