La Biennale Musica di Venezia 2017 si apre nel segno di Stockhausen, a dieci anni dalla morte, con la ripresa di uno dei suoi capolavori, Inori per solista e orchestra, riproposto in prima italiana al Teatro alle Tese nella versione con trentatré strumentisti.
Marco Angius, alla guida dell’Orchestra di Padova e del Veneto e la danzatrice Roberta Gottardi hanno offerto un’interpretazione volta ad esaltare la coappartenenza tra suono e gesto, strettamente connessi nel progetto compositivo, come hanno sottolineato in apertura Kathinkha Passvere e Alan Louafi, protagonisti della messa in scena realizzata sotto la supervisione dell’autore a Donaueschingen nel 1989.
La formula di Inori (‘preghiera’, in giapponese) contiene infatti tredici note ognuna delle quali è associata a un gesto ispirato a diverse forme devozionali, dallo yoga indiano, alla preghiera tibetana fino alla messa cattolica, i rituali africani della terra, le sculture degli indiani d’America e le immagini cambogiane di Angkor. Diversità di registri, durata e dinamica delle note articolano la drammaturgia coreutica, il cui schema è completato da due gesti di chiusura e un ascolto in eco.
Alla ricostruzione fedele della piattaforma sopraelevata ove agisce il mimo, dettagliatamente descritta da Stockhausen, Alberto Chiti ha aggiunto una struttura triangolare evocante memorie kandinskijane (si pensi alla simbologia geometrica de Lo spirituale nell’arte).
Ulteriore elemento di suggestione era rappresentato dall’accurata scelta delle luci affidata al giovane Alberto Oliva, autore anche della mise en espace. Dunque un incrocio di linguaggi artistici estremamente complesso che necessitava a nostro avviso dell’ampio approfondimento introduttivo, coordinato da Ivan Fedele e svolto sia in italiano che in inglese per potere assicurare anche agli ospiti stranieri e ai meno addetti ai lavori una comprensione più completa dell’opera.
Alcuni hanno lamentato l’eccessivo protrarsi di questa esegesi ma il rito cui invita Stockhausen era già in atto in questa preparazione all’ascolto, dal momento che il primo e forse più importante dei messaggi racchiusi in Inori consiste proprio nell’imparare ad astrarsi dallo scorrere abituale del tempo per immergersi in una dimensione libera da pensieri preordinati, legati alla logica del divenire, lontani dall’assolutezza eterna del sacro.
Approfondire la volontà dell’autore attraverso le indicazioni estetiche degli artisti che hanno lavorato con lui e conoscere lo sforzo innovativo affrontato dall’attuale allestimento consente, in questa prospettiva, una migliore disposizione alla ricezione dell’opera.
Angius e Gottardi hanno lavorato fianco a fianco per restituire l’essenza di quel laborioso processo di formazione che porta all’apertura verso il divino, dallo scioglimento progressivo della rigidità del corpo che caratterizza la prima delle cinque sezioni fino all’esplosione di energia interiore che culmina nella rivelazione trascendente e nella libera plasticità dell’abbraccio con la luce, seguita dall’immersione nel buio originario, fonte di vita e di mistero.
Notevole la difficoltà imposta dalla partitura, che suddivide l’orchestra in due sezioni finalizzata all’allestimento di un ideale teatro del suono e del silenzio, attentamente coordinato anche dalla regia di Alvise Vidolin. La resa complessiva, pur con alcune lievi discrasie, è di alto livello e il pubblico, ammaliato, ha a lungo applaudito.
La serata successiva è stata invece dedicata alla cerimonia di premiazione del Leone d’oro alla carriera consegnato al compositore cinese Tan Dun. «Poliedrica e carismatica figura della musica del nostro tempo e tra gli autori più rappresentativi di quella creatività di origine e matrice orientale che ha intrecciato rapporti di intensa frequentazione se non addirittura di coniugazione con l’Occidente», recita la motivazione letta da Ivan Fedele. Dun, visibilmente commosso, ha quindi diretto l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai in tre delle sue opere proposte in prima italiana al Teatro alle Tese dell’Arsenale.
Sensibile all’aspetto fruitivo che caratterizza l’innovazione tecnologica, l’artista realizza con Passacaglia: Secret of Wind and Birds (2015) un singolare connubio fra la tradizione cinese e quella occidentale. Da una parte un’applicazione consente al pubblico di scaricare tramite codice QR la registrazione di versi di uccelli suonati da strumenti cinesi, interagendo con il proprio smartphone durante la performance dell’orchestra; dall’altra la parte strumentale rievoca antichi generi (quello della Passacaglia con Variazioni), rivisitati traendo ispirazione dall’idea delle onde e dell’acqua articolate in incisi brevi e ripetitivi dal ritmo sempre più incalzante.
Mentre il Concerto for Orchestra (2012), tratto dall’opera Marco Polo (concepita durante un viaggio a Venezia) accusa alcuni momenti di minore tensione dal punto di vista compositivo, nonostante alcune efficaci intuizioni timbriche, il coevo Percussion Concerto: The Tears of Nature è un’opera avvincente che ha avuto nel giovane Simone Rubino un performer d’eccezione. L’infinita ricchezza dei suoni naturali si manifesta nel corso dei tre movimenti attraverso il colore del tuono, della passione e dell’energia, rivelando una ricerca strumentale raffinata e di sicuro impatto, sempre attenta agli equilibri delle masse abilmente coordinati dalla direzione di Dun.
Rubino non è solo un virtuoso di rara eccellenza esecutiva ma è soprattutto un musicista dal dirompente talento comunicativo, pieno di fantasia nelle minime variazioni del tocco e di gioia interpretativa che trasmette diventando egli stesso musica viva. Pubblico numeroso e caloroso.