Come un gioiello rimesso a nuovo dopo un periodo di oblio, la luce di Anna Bolena – tragedia lirica in due atti di Felice Romani, battesimo meneghino per Gaetano Donizetti – è tornata a splendere al Teatro dell’Opera di Roma. Il primo dei drammi inglesi del compositore bergamasco è andato in scena in un nuovo allestimento, in coproduzione con la Lithuanian National Opera and Ballet Theatre, per la regia di Andrea De Rosa, sotto la direzione musicale di Riccardo Frizza. Come spesso accade per un ritorno a lungo atteso, nella produzione romana è stato mobilitato un cast stellare, e un grande afflusso di pubblico ha interessato uno dei titoli più promettenti della stagione operistica in corso. Andata per la prima volta in scena nel dicembre del 1830 nel piccolo ma combattivo Teatro Carcano di Milano, l’Anna Bolena fu un importante biglietto da visita per il pubblico cosmopolita e culturalmente aggiornato della Milano romantica. Donizetti presentava uno stridente dramma d’affetti intessuto di riferimenti politici ed allusioni morali neanche troppo velati, e doveva superare la difficile prova del consenso, ancor più ardua in un contesto che vedeva la figura di Bellini – suo più temibile concorrente – saldamente impiantata nel cuore dei milanesi, e dovendo per di più musicare un libretto di Felice Romani, sodale del Catanese. L’opera dimostrò non solo la grandezza dell’estro compositivo di Donizetti, ma anche la sua maturità artistica già pienamente emersa grazie al lungo apprendistato sulle scene napoletane, e la sua agilità nel muoversi tra le pieghe e i risvolti di solide e ‘solite’ strutture drammatiche.
Di questa consapevolezza e padronanza espressiva donizettiana si possono scorgere le tracce in tre differenti livelli dell’allestimento romano, che vanno dal generale al particolare: innanzitutto le scelte registiche e le caratteristiche della messinscena; poi il corpo sonoro, vivo e brillante, e la voce lirico-riflessiva dell’orchestra che gioca – in quest’opera e come sempre in Donizetti – un ruolo cruciale; e infine l’interpretazione dei cantanti, e in particolare delle due prime donne, rispettivamente nei ruoli di Anna e di sua cugina Giovanna Seymour.
La regia di Andrea De Rosa ci mostra sin da subito lo spazio angusto e claustrofobico del Castello di Windsor, sede del potere monarchico inglese, dove l’infelice e ormai trascurata regina Bolena si è volontariamente reclusa, in cerca di prestigio e fama personali. Lo spazio regale, sia quello intimo degli appartamenti della sovrana, sia quello condiviso con il resto della corte, è perennemente delimitato da barriere e grate, sospese a mezz’aria e spesso in penombra, ma che inquietanti incombono, pronte a stringersi attorno alla vittima.
La gabbia che attende Anna a seguito di un’ingiusta condanna per adulterio segue un graduale percorso di avvicinamento alla sventurata sovrana, che sopporta in realtà fardelli assai più pesanti, come l’amore irrisolto e mai dimenticato con il proscritto Percy, la consapevolezza di aver usurpato il soglio regale condannando a sua volta un’altra donna all’infelicità, e la certezza che nessuno può esser puro o innocente in quella prigionia metaforica che è il mondo cortigiano. Sarà proprio il letto, alla fine del primo atto, quando Enrico VIII sorprende sua moglie in un imbarazzante triangolo con il paggio-musico Smeton e Percy – due uomini che la amano incondizionatamente e nonostante tutto – a chiudersi come una gabbia attorno ad Anna, separata ormai dal marito da una grata impenetrabile.
La stessa gabbia, a misura di individuo, galleggia a mezz’aria per tutto il secondo atto, divenendo ora la stanza di reclusione di Anna nella grande scena del duetto con Giovanna, ora parte del vestibolo dove viene annunciata la condanna capitale deliberata dal Consiglio dei Pari, ed infine lo spazio dell’esecuzione vera e propria, dove Bolena in preda al delirio canta le ultime reminiscenze dell’unico amore che abbia mai vissuto. Circondata a sua volta dalle onnipresenti reti metalliche sospese, questa gabbia rassomiglia tanto all’involucro interno di un ascensore condominiale, che nella sua risalita sociale dall’androne ai piani alti si è definitivamente bloccato per i capricci privati di un despota, i cui effetti sono inevitabilmente storici e collettivi.
Per quanto l’idea possa sembrare didascalica e poco originale, è proprio tra queste barriere architettoniche – nella loro dimensione, sia chiaro, metaforica e teatrale – che Donizetti fu costretto a muoversi quando compose l’opera, cercando di imprimere un nuovo ritmo drammatico ai tradizionali pezzi chiusi. Nelle scene d’insieme, nei confronti serrati tra vecchi e nuovi rivali, negli splendidi ed ambigui duetti dagli insoliti sottotesti – si pensi a quello, sensualmente allusivo, tra il Re e la sua amante Seymour – Donizetti ricercò quindi una nuova vitalità nelle relazioni intersoggettive dei personaggi, prediligendo una maggiore aderenza alla verità drammatica ed esibendo una decisa volontà di autonomia rispetto al modello rossiniano da cui pure proveniva.
Certamente, la cristallizzazione tra il momento lirico-effusivo del cantabile e quello più dinamico ed energico della cabaletta permea ancora tutti i numeri dell’opera – arie, duetti, scene d’insieme e concertati – e ci ricorda che a quest’altezza la gabbia della cosiddetta ‘solita forma’ aleggiava sull’opera italiana come le pareti-prigione del Castello di Windsor; ma è proprio nella musica – e, ovviamente, nell’uso delle linee vocali – che Donizetti conquistò gradualmente uno spazio sempre più ampio.
Il secondo livello con cui è possibile misurare il grado di consapevolezza di Donizetti riguarda l’uso dell’orchestra, a livello espressivo e timbrico-sonoro. Per palesare le sfumature e i differenti registri umorali che contraddistinguono i personaggi e i loro scambi relazionali, l’operista bergamasco ricorse ad una presenza attiva e complice del suono orchestrale. I lunghi recitativi accompagnati, specialmente nelle grandi scene di dissidio interiore, mostrano ad esempio tutto il rimorso lacerante di Giovanna, sedotta dal fascino regale ma molto affezionata ad Anna; e lo stesso vale per i singoli interventi strumentali, il cui timbro sonoro diventa il contrassegno dello stato d’animo del momento, come nella grande scena-delirio di Anna, in cui il suono melanconico e languido del corno inglese introduce l’elegiaco ricordo della felicità giovanile – una delle più intense melodie mai scritte da Donizetti – mentre il rullo di un tamburo e la baldanzosa marcetta suonata dalla banda interna riportano Anna al molesto dolore dell’hic et nunc.
Il colore dell’orchestra è quindi elemento determinante nella drammaturgia complessiva dell’Anna Bolena, e qui un meritatissimo plauso va al direttore Riccardo Frizza che ha reso con notevoli chiaroscuri ed intense pennellate sonore tutti gli squarci sentimentali che costellano l’opera. Nell’equilibrio sonoro tra il timbro dei singoli strumenti e la massa orchestrale, nella cura attenta e precisa delle dinamiche, e infine nell’andamento brioso ed energico, sempre tagliato su misura a seconda della scena di riferimento, ma mai dimenticato, Frizza ha dimostrato di aver ben compreso la gioia contagiosa del melodismo donizettiano, che è presente anche in una tragedia d’affetti.
Ultimo livello, il più esplicito sul piano delle pieghe espressive, è quello del canto e delle linee vocali. La gabbia della convenzione belcantistica potrebbe essere la più dura da scardinare, a causa della già solida e robusta stratificazione di convenzioni e orizzonti d’attesa del pubblico, eppure Donizetti mostrò grande precisione nel differenziare i tipi vocali, in un contesto affollato come quello che la tragedia prescrive. La solida e scura voce di Alex Esposito ha dato vita ad un Enrico VIII privo di scrupoli e monolitico, sottilmente ambiguo con qualsiasi altro personaggio abbia di fronte, dalla moglie, all’amante, al giovane paggio còlto col ritratto della sovrana. Significativa anche la presenza scenica del cantante, che restituiva al pubblico un fascino inquietante, spesso riscontrabile in tutto ciò che è il più lontano possibile da noi, e che portava nei momenti di maggior furore ad una veloce incursione nel parlante.
Unico personaggio realmente positivo, prototipo dell’eroe risorgimentale proscritto e mai dimentico del primo amore che pure l’ha abbandonato in esilio, è Riccardo Percy, interpretato dal giovane tenore René Barbera. Una parte vocale molto densa e difficile, spesso spinta ai limiti di registro e che richiede uno sforzo notevole all’interprete per arrivare sino in fondo. Barbera ha mantenuto una seraficità compatta ed elegante in ognuno degli straordinari numeri solistici che costellano la partitura, e il timbro luminoso, potente della sua voce viaggiava senza problemi sino all’angolo più recondito del teatro, restituendo all’immaginario romano la più classica delle performances belcantistiche.
Simbiosi perfetta di innovazione e tradizione, il paggio Smeton – personaggio maschile affidato al mezzo soprano, qui splendidamente camuffato dall’incolta barba nera – è stato interpretato dalla versatile e raffinatissima Martina Belli. Il personaggio, motore inconsapevole della catastrofe finale, è unicamente concentrato sulla passione per Anna, che non riesce a sublimare, confessandola infine anche davanti al tribunale dei Pari. L’aria che apre la scena della camera da letto («Ah! parea che per incanto»), così come il momento diegetico della serenata – cantata alla Regina nella vana speranza di farle prendere coscienza dei suoi sentimenti, e che invece turba la sovrana – sono pagine malinconiche e chiaroscurali, il cui rassegnato conflitto interiore è emerso limpidamente nella voce della Belli, densa di armonici e ben sostenuta in tutti i salti di registro. Giovanna Seymour è forse uno dei primi personaggi femminili ad essere messo a nudo in tutte le sue ambiguità e colpevolezze nell’opera italiana medio-ottocentesca. Non a caso, i numeri più intensi non la coinvolgono come solista, ma nelle due grandi scene di duetto con Enrico e con l’amica-rivale Anna, che la assolve scaricando tutta la colpa sul consorte libertino.
Carica di sensualità ambigua, di sincero rimorso e affettato patetismo, senza mai perdere l’austera regalità che conviene a chi sta – volente o nolente – per ascendere al trono, Giovanna è stata affidata alla celebre Carmela Remigio, perfettamente a suo agio nel ruolo donizettiano. L’anima della futura regina è davvero un prisma sfaccettato, e questa polivalenza di affetti e desideri è tutta riversata nei momenti di confronto-scontro con gli altri personaggi che prova a cambiare, senza mai riuscirci. La Remigio ha mostrato tutto questo tumulto interiore, senza mai trascendere le convenzioni e la prassi filologica di questo ruolo. Vera eroina della serata, acclamata come una star d’altri tempi da un pubblico romano spesso pigro negli applausi, Maria Agresta nel ruolo di Anna Bolena, una regina sola e dolente che diviene vittima sacrificale, lasciando questo mondo come una pia donna, in pace con chi l’ha tradita. Bloccata nella gabbia, molto spesso costretta a movimenti minimi ed essenziali perché sempre soggiogata dal suo dolore e dai sentimenti altrui, la voce della Agresta, piena e corposa, si è slanciata in sfoghi lirici impetuosi e rischiosi, senza mai perdere il colorito pallido del personaggio, né la lucentezza sonora che ne costituisce il fascino.
Anna Bolena resta il trampolino di lancio per la folgorante carriera che garantì a Donizetti un successo nazionale ed europeo, e mostra in filigrana il grado di personale innovazione che l’operista seppe dare al melodramma italiano. Per quanto ancora convenzionali, tanti schemi drammaturgici presenti nell’opera sono stati il fulcro di un cambiamento stilistico che percepiva come troppo asfissianti le gabbie del teatro musicale italiano. Rivederli in scena a Roma in questa ottima produzione conforta sia il melomane che lo studioso appassionato, i cui giudizi estetici possono sovrapporsi con naturalezza nella contemplazione di un piccolo capolavoro.
Ph. Yasuko Kageyama