Tutto esaurito per il secondo concerto della Stagione sinfonica del Teatro Comunale di Bologna. In programma la Suite tratta dal “Mandarino meraviglioso” di Béla Bartók, il Concerto per pianoforte e orchestra n. 1 op. 15 in Do maggiore di Ludwig van Beethoven e la Sinfonia n. 8 op. 88 in Sol maggiore di Antonín Dvořák.
Il piglio passionale ed eloquente della direttrice Shiyeon Sung, il cui gesto perentorio e inesorabile non è certamente passato inosservato, ha impregnato l’esecuzione della Suite di Bartók. Nella seconda parte del concerto molto apprezzato è stato invece il contrasto, tutto dvořákiano, tra tono elegiaco e figurazioni briose (quasi svolazzanti, come i piccioni per i quali il compositore nutriva una grande passione) e non ignare di un humour gustoso e coinvolgente.
Al centro della serata l’esecuzione del Concerto per pianoforte n. 1 di Beethoven, una delle prime opere a sancire l’affermazione viennese del compositore.
Una scrittura caleidoscopica e tecnicamente ardua permea tutto il concerto, costantemente impregnato di un titanico virtuosismo tastieristico, che pare riecheggiare quello di Muzio Clementi. Grande padronanza e approfondita conoscenza della partitura hanno caratterizzato l’interpretazione offerta dal pianista Andrea Lucchesini che ha offerto una fantasiosa interpretazione dello sviluppo, tempestoso e intricato, e ha incantato il pubblico durante l’ampia cadenza del solista.
Il Largo ternario, incentrato sull’espressiva cantabilità del pianoforte, è stato il fulcro poetico dell’intera serata. Accompagnato dal morbido sostegno degli archi, ora sognante e insinuante, ora fiero e sicuro, il pianista ha dato vita al ricamato dialogo prima col vellutato impasto di clarinetti, fagotti e corni, poi col clarinetto solo. Egregia l’introduzione del conclusivo “Allegro scherzando” in forma di rondò-sonata. La scrittura baldanzosa, animata da un incontenibile buonumore e da vari accenti dell’esotismo in voga nella Vienna di fine Settecento, mostra i primi frutti della ricerca beethoveniana sul pianoforte, strumento del quale il compositore subito accolse, costantemente seguì e poi incoraggiò gli sviluppi costruttivi.
Ho intervistato Andrea Lucchesini, classe 1965, premio Abbiati nel 1994, didatta e cesellatore musicale illuminato e documentato, da anni impegnato nell’interpretazione del repertorio pianistico e cameristico viennese del primo Ottocento.
Una corrispondenza d’elezione quella con Beethoven, del quale ha registrato live nel 2003 l’integrale delle sonate per Stradivarius. Come definirebbe il suo rapporto col titano di Bonn?
È un po’ il mio romanzo di formazione, visto che fin dall’infanzia ho avuto sul leggio musiche di Beethoven ad accompagnarmi nella crescita: ricordo le Variazioni in do minore, nel programma di uno dei pochissimi concerti che fui autorizzato da Maria Tipo a tenere da bambino. Poi molte sonate, fino alla sfida rappresentata dall’Hammerklavier, che cominciai a studiare a 15 anni. Certamente un gesto coraggioso e quasi temerario (penso oggi da insegnante), ma mi ha permesso di lavorare a lungo, con calma e sotto la guida di una grande musicista, ad una delle opere più impervie di Beethoven, negli anni in cui ancora lo studio era la mia unica attività. Penso che tutto questo abbia contribuito a prepararmi all’approfondimento delle altre sonate, che si sono aggiunte in occasione della presentazione in concerto del ciclo integrale, di cui i CD sono la testimonianza.
Abbiamo apprezzato il tocco argentino e cristallino, la scelta dei tempi accurata e ricca di nuances e la cesellata articolazione dei fraseggi cantabili. Ho personalmente trovato incantevole l’atmosfera impalpabile e rarefatta creata nel secondo movimento del concerto attraverso un uso sapiente del pedale di risonanza. Qual è la sua formula per affrontare il virtuosismo beethoveniano, tanto diverso da quello tardo-romantico e novecentesco, ma non per questo meno arduo?
Non c’è una vera e propria formula (purtroppo!), ma piuttosto una contemporanea esigenza di attenzione puntuale alla costruzione formale, e di cura affettuosa dei dettagli e dei gesti pianistici: in Beethoven tutto questo significa da un lato estrema chiarezza e coerenza architettonica, dall’altro profonda adesione emotiva e spirituale, attraverso la scelta del fraseggio, del suono, ed anche del respiro.
Dal 2008 al 2016 è stato direttore artistico della Scuola di Musica di Fiesole, dove è tuttora docente. Come vive la sua attività didattica e il costante incontro con le potenziali giovani promesse di domani?
Con attenzione e tenerezza: credo che la trasmissione delle proprie conoscenze sia uno dei compiti principali di un musicista, e che la bottega artigianale sia ancora (nonostante il mondo sia andato nella direzione del supermarket) il luogo di questo passaggio di consegne.
I giovani musicisti di oggi hanno la possibilità di moltiplicare le loro esperienze, ma questo rischia talvolta di frastornarli nella varietà degli stimoli e delle informazioni, deresponsabilizzando al contempo chi li segue solo per un breve tratto.
Considero anche molto importante offrire ai giovani la possibilità di misurarsi con l’esperienza del concerto (si trovano a suonare quasi esclusivamente in situazioni competitive), e per questo ho scelto di riservare a loro il piccolo spazio che gli Amici della Musica di Firenze hanno voluto destinare alla mia organizzazione: è nato così fff Fortissimissimo Firenze Festival, una piccola rassegna di giovani musicisti che precede la stagione concertistica vera e propria.
Ha eseguito la terza cadenza vergata da Beethoven per questo concerto, la più estesa delle due cadenze da lui composte attorno al 1809 per l’arciduca Rodolfo d’Asburgo-Lorena, suo allievo e mecenate. Quali le ragioni di tale scelta?
Sappiamo che Beethoven amava improvvisare, e che nelle cadenze si produceva in un’ampia varietà di gesti pianistici diversi, con cellule conclusive che, invece di portare al tutti orchestrale, si riaprivano spesso a nuovi e imprevedibili episodi, alternando virtuosismo e slanci lirici. In questo senso la traccia scritta della terza cadenza mi sembra la più “beethoveniana”, e credo rappresenti un interessante testimonianza delle abitudini esecutive di un grande pianista all’inizio del XIX secolo.
Sta presentando in questi mesi il suo nuovo CD comprendente sei sonate di Domenico Scarlatti e Six Encores di Luciano Berio, un progetto pensato insieme allo stesso Berio, grandissimo compositore al quale lei era legato da un intenso rapporto di amicizia e di collaborazione. Desidera fornirci un’anticipazione del suo prossimo progetto discografico?
Da qualche tempo sto lavorando intensamente su Schubert: dopo aver dedicato tante energie a Beethoven ho sentito il desiderio di immergermi in un diverso linguaggio espressivo, e così sto realizzando, sempre con la casa discografica tedesca Audite, tre dischi dedicati alle ultime opere pianistiche. Avevo già inciso con Avie Records gli Improvvisi e, nel disco Scarlatti-Berio, i Momenti Musicali (alternati a Idyll und Abgrund di Widmann).
Fra poco uscirà il primo cd schubertiano, con l’Allegretto in do minore D. 915, la Sonata in la maggiore D.959 e la piccola Sonata in la minore D.537, che ho voluto aggiungere, anche se è del 1817, perché nell’Allegretto quasi andantino presenta la traccia tematica che sarà elaborata compiutamente nel Rondò Allegretto che conclude la Sonata D.959.
Gli altri due dischi conterranno la Sonata in sol maggiore D.894, la Sonata in si bemolle maggiore D.960 e i Drei Klavierstücke D.946.