Dall’Ucraina terra di violinisti, all’Italia terra di violini, l’avventura e i sogni di Anastasiya Petryshak. Ex bambina prodigio, a 24 anni debutta in disco imbracciando uno Stradivari
Anastasiya Petryshak è una violinista di grande talento, in possesso di un’intonazione perfetta, un suono molto affascinante, una tecnica brillantissima e una musicalità pura: queste le parole che a lei dedica Salvatore Accardo.
Il volto candido e luminoso, la chioma biondissima, i lineamenti gentili che richiamano quasi una madonna rinascimentale. Lo sguardo che trasmette un mix di dolcezza e determinazione. Ha ventiquattro anni, Anastasiya Petryshak, la stella del violino venuta dall’est Europa.
Dall’Ucraina, terra tormentata, ancora oggi in bilico tra guerra e pace, che diede i natali a mostri sacri come David Ojstrach. Terra divenuta certamente celebre per la storica tradizione della sua scuola violinistica.
Di Anastasiya Petryshak si legge sul web “La ragazza degli Stradivari”, o, ancora, commenti come: “se una casa discografica la prende farà il botto”. E, neanche a dirlo, così è stato: lo scorso mese di ottobre, al suo debutto per l’etichetta Sony Classical con un cd monografico dedicato al genio di Antonio Vivaldi dal titolo Amato Bene, in cui ad accompagnarla sono gli Archi dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia diretti da Luigi Piovano. La incontriamo in questa occasione per tracciare il suo ritratto d’artista e domandarle della sua più grande passione, il violino.
L’inizio dello studio del violino in tenera età. Com’è avvenuto questo fortunato incontro che le ha segnato la vita?
«Tutto ha avuto inizio grazie a Vivaldi. Ho iniziato con il pianoforte a cinque anni poi, un giorno, mentre passeggiavo con mia madre per la mia città, Ivano- Frankivs’k, sentii suonare Le quattro stagioni. Fu un vero e proprio colpo di fulmine e non feci altro che ripetere continuamente la parola violino finché, per merito della mia testardaggine, non riuscii a passare dallo studio del pianoforte a quello del violino.
La mia prima insegnante era una donna incredibile e una grande musicista. Da subito mi fece partecipare a lezioni, concorsi e concerti. Già dall’età di otto anni, insomma, capii che il violino sarebbe stato il mio compagno di vita».
Trascorsi da “enfant prodige”: quali a suo avviso i rischi e quali le opportunità?
«Il mio percorso è stato differente da quello di molti musicisti classici che hanno iniziato dall’età di tre anni. Iniziare ad otto con lo studio del violino è stato piuttosto rischioso; ma ero molto determinata e l’apprendimento si è rivelato velocissimo. I progressi sono stati piuttosto rapidi e il desiderio di riuscire nell’intrapresa ha prevalso su tutto.
Le basi acquisite, per quel che riguarda lo studio in Ucraina, mi hanno aiutato. Dopo quella visione rigorosa e schematica, finalizzata alla partecipazione ai concorsi e allo studio dei relativi programmi, ho poi conosciuto in Italia una realtà diversa. Un approccio più libero, proprio ciò che rispondeva al bisogno di superare i vincoli di un’impostazione rigorosa, e poter in una qualche misura rompere gli schemi».
Viene da un Paese, l’Ucraina, ben noto per la sua storica scuola violinistica: cosa sente di questa “influenza” nel suo approccio allo strumento?
«Devo la mia impostazione alla mia prima insegnante che mi ha trasmesso delle basi tecniche molto solide e un grande amore per lo strumento. In Ucraina la sensibilità verso il violino è grande, basti pensare che il suo nome è un sostantivo di genere femminile (strumento “che tocca le corde dell’anima”). Si crede infatti, generalizzando, che l’Ucraina sia un Paese di gente fredda ma mi capita di frequente più che altrove di vedere persone piangere ascoltando un concerto».
Cosa ammira di quella scuola così importante? Ha dei riferimenti?
«È certamente una scuola che ha dato vita a violinisti di grande spessore come David Ojstrach, che ho sempre considerato un riferimento cruciale. Fin da piccola ho ascoltato la sua musica, tant’è che un regalo indimenticabile che mi fece la mia insegnante fu portarmi a sentire un Concerto di Mozart, eseguito da lui, riprodotto con un vecchio giradischi: ricordo ancora i brividi».
Lascia la madrepatria a soli 11 anni. Qual è oggi il legame di Anastasiya Petryshak con l’Ucraina, Paese tormentato da una guerra civile sotterranea che mostra un forte desiderio di cambiamento?
«Il mio sangue è slavo e ucraino; ma ritengo di aver compiuto un percorso di vita particolare che mi ha portato a sentirmi oggi cittadina del mondo. Ho vissuto a lungo in Italia, viaggiato tanto per concerti; questo mi ha consentito di arricchirmi umanamente e culturalmente. Non sono tornata spesso in Ucraina ma mi capiterà a breve di suonare la musica di Paganini a Kiev. La musica italiana che adoro nel mio Paese d’origine: sarà una grande emozione».
Sulla sua esperienza, iniziata a 16 anni, con Salvatore Accardo all’Accademia Stauffer di Cremona?
«Lo considero un punto di riferimento, un faro. L’ho seguito negli anni di crescita, forse i più delicati. E riconosco la sua singolare capacità di non soffocare mai il talento individuale con l’imposizione di una propria impronta; anzi, sprona ogni allievo ad esprimere la propria personalità. Lasciare spazio e far sì che attraverso il violino ci si possa sentire se stessi. Mi ha insegnato la fedeltà al testo e l’amore per la musica d’insieme; a non cercare di essere solo violinista ma, prima ancora, artista e musicista».
È oggi la violinista che maggiormente lavora nel mondo con i violini storici: cosa significa per lei? Cosa si prova a suonare violini come “Il Cannone” appartenuto a Paganini?
«Ogni strumento ha il suo carattere e la sua personalità. Non si tratta solo di pezzi di legno; occorre far respirare e parlare ogni strumento perché ognuno possiede e rivela la sua storia.
Per la registrazione di questo cd ho avuto la possibilità di suonare un violino Stradivari del 1690. È stato incredibile pensare quante emozioni e quanto della mente e dell’anima di chi nei secoli lo ha suonato possa aver assorbito. Per questo nutro verso questi strumenti un enorme rispetto e cerco di “far amicizia” con loro, sia che si tratti di un Amati che di uno Stradivari o di un Guarneri del Gesù».
L’album di debutto per Sony Classical “Antonio Vivaldi: Amato bene e Quattro Stagioni”: come nasce il progetto?
«Direi che questo progetto è nato e cresciuto da sempre con me, con il mio profondo amore per Vivaldi. L’ho scoperto a otto anni ed è stato un colpo di fulmine;.ho sempre sognato di suonare Le quattro stagioni. In Italia ho potuto respirare l’aria che respirava Vivaldi e capire come e dove è nato tutto. Fin da piccola ho suonato la sua musica e quel che ho sempre amato è la libertà che lascia all’interprete. Questa è magia. La sua musica non si ferma a parametri estetici e modernità. Un amore reciproco che mi ha fatto davvero sentire “amata bene»”.
Sulla collaborazione con gli Archi dell’Accademia di Santa Cecilia e con il loro direttore Luigi Piovano?
«Sono membri di un’orchestra con un nome importante che suona con grandi solisti. Pensavo di trovarmi davanti a persone “abituate”, invece mi sono dovuta ricredere; sono musicisti di grande animo. Si è creata un’atmosfera magica e la reazione è stata calorosa. Ricordo esattamente il momento in cui ho prelevato lo strumento dalla teca e mi sono ritrovata con un gioiello tra le mani a cui mi ero ormai affezionata e che, distaccandomene, ho poi dovuto salutare».
E, per concludere, uno dei tanti sogni che così giovane spera di realizzare?
«I sogni sono ancora tantissimi ma credo che la cosa più importante, più che legarsi a un progetto, sia la ricerca continua di come migliorarsi e arricchirsi. Vivere, insomma, e permettere alla propria musica di crescere di conseguenza. Si, poi vorrei avere uno strumento antico, è una cosa che certamente mi darebbe equilibrio».
Luisa Sclocchis