«Sono così brutte come dicono?». «Òstrega! Anche di più!». In questi termini, assuefatti da banali opinioni estetiche, discettavano due melomani di bon goût (secondo il gusto dei loro tempi), appollaiati su una sedia del Caffè Florian. Brutte, forse, lo erano; se è vero che «la fama della incredibile loro bruttezza» le precedeva in ogni dove. Ma, senza fare più clamore di quanto la naturale ritrosia che obbliga a parlare con parsimonia dei difetti richieda, basti ricordare che la bellezza, in fin dei conti, non è tutto. Senza le loro performance, infatti, non sarebbero state scritte pagine memorabili della storia della lirica. Di chi stiamo parlando? Beh, lo si sarà già intuito piuttosto bene. Delle sorelle Barbara e Carlotta Marchisio, naturalmente. Un contralto e un soprano piemontesi che, a dispetto della loro scarsa avvenenza, con la beauté très personnelle du timbre divennero regine incontrastate dei palcoscenici di tutto il mondo. Forse a qualcuno, girovagando per Milano, sarà finanche capitato di ammirare i loro ritratti nella quarta sala del Museo Teatrale della Scala, poco distanti da quelli, più gettonati, di Verdi e della Strepponi.
Le immaginiamo ora a Venezia, nel cuore dell’estate 1858, impegnate in una nuova produzione della Semiramide di Gioachino Rossini, destinata per fasti e nefasti a entrare nella storia. I fratelli Gallo, proprietari del Teatro San Benedetto, erano abituati a puntare sul cavallo vincente. Furono loro, per esempio, a decretare il successo de La traviata di Verdi, nel 1854, dopo il clamoroso fiasco dell’anno precedente a La Fenice. Adesso si gloriavano «di far sentire le meravigliose artiste nel proprio teatro»: con le sorelle Marchisio “tornare in Babilonia” sarebbe stato un trionfo, paragonabile «soltanto a quello molti anni prima suscitato da Maria Malibran nel teatro di San Giovanni Grisostomo». La scrittura, mediata in maniera poco serena da Luigi Merelli (figlio del potentissimo impresario scaligero, Bartolomeo), risultò essere ben poco lucrosa per le due giovani artiste: le clausole vessatorie delineavano una sorta di package deal. Pazienza! Venezia era una piazza troppo importante per lasciarsela scappare.
Le Marchisio si erano messe in viaggio, come di consueto, in compagnia del fratello maggiore. Anche il Cavalier Antonino non era propriamente un Adone: anzi, era un tipetto «piccolo, gobbo e quadrato». Eppure, da anni era l’infaticabile «arbitro musicale a Torino». Perché, sì, quella dei Marchisio era una famiglia di artisti eccezionali. Fra le altre cose, Antonino, maestro di musica della corte sabauda, e suo fratello minore Giuseppe Enrico, concertista sopraffino, gestivano un rinomato stabilimento di pianoforti in Piazza Vittorio n. 11 dove, a partire dal 1854, regolarmente «vi si faceva quartetto di musica classica». Una autentica novità! Prima che nascessero le Società del Quartetto di Firenze (1861) e di Milano (1864), furono dunque i Marchisio a proporre in Italia le «severe bellezze della musica classica da sala». Detto questo – per dovere di pedantesca acribìa – bisogna tener presente che le due damigelle Marchisio, cresciute in una casa «sempre aperta a tutti quelli che masticavano semicrome» (così si diceva, da Vanchiglia a Corso Oporto), giocoforza divennero, fin dalla più tenera età, le beniamine dell’alta aristocrazia torinese: la duchessa di Genova, Elisabetta di Sassonia, era solita ascoltare con trasporto le domenicali adunanze cameristiche, impreziosite da pépites d’opéra; e non passò troppo tempo prima che chiedesse al maestro Antonino di istruire nell’arte musicale sua figlia Margherita (futura regina d’Italia).
Torniamo, al 1858. Per fortunata intercessione del tenore Geremia Bettini (allievo di Carlo Coccia e genero dell’impresario Max Maretzek), i Marchisio alloggiarono per qualche tempo al piano nobile di una delle sontuose dimore della celebre étoile Maria Taglioni (oggi palazzo Corner Spinelli, nel sestiere di San Marco). L’aneddotica vuole che le due sorelle svelassero dai balconi «le loro soavità canore con diversi duettini amorosi»; la curiosità dei passanti era tanta e tale che, addirittura, «i gondolieri frenavano il monotono cadenzar dei remi» per non disturbarle (una delicatezza di gran riguardo). Ma nessuno ancora aveva capito chi fossero quelle suadenti forestiere. A dirla tutta, i veneziani avrebbero dovuto attendere ancora un po’ prima di poterlo scoprire (aveva ragione Osip Mandel’štam: «L’inaccessibile, com’è vicino!»). Il succitato Merelli, infatti, messo con le spalle al muro dai fratelli Gallo, che «pretendevano il quartale anticipato», optò per una deviazione tattica verso Trieste in cerca di facili e cospicui guadagni. Il palcoscenico designato fu quello dell’Anfiteatro Mauroner («El Teatro Giazzera» – ghiacciaia – come lo soprannominò Giglio Padovan), sorto nel 1826 per asburgica concessione e distrutto da un incendio nel 1876. In cartellone la Norma di Bellini: le Marchisio vennero acclamate al limite del fanatismo, mettendo «il teatro in rivoluzione».
Tornati con tutti gli (on)ori a Venezia, Antonino e le due sorelle si sistemarono in una «modestissima casa» in Campo de San Beneto, lontana da occhi indiscreti. In città c’era chi giurava di averle viste passeggiare «coperte da mantelli grigio ferro eguali, assai comodi, ma punto eleganti»; oppure entrare nella trattoria di Paron Checo – quella di fronte al sottopòrtego del teatro – dove si beveva un buon vinello bianco dei Colli Euganei (che fa molto Jacopo Ortis, quando «dest[a] una famiglia cantando la canzonetta della vendemmia»). Così, fra un prosit e l’altro, iniziarono le tanto attese prove della Semiramide. Barbara sarebbe stata impegnata nel ruolo en travesti di Arsace; Carlotta in quello della regina Babilonese (che originariamente fu di Isabella Colbran Rossini). Calate nei panni di una madre e di un figlio che, se non a parole, duettano in musica note d’amore, le sorelle Marchisio in un certo senso portavano in scena una sorta di «incesto al quadrato» (come suggerisce Marco Beghelli in Erotismo canoro). Nel frattempo, il tenore Bettini era partito di gran carriera per una tournée parigina. Le star assolute del cast rimanevano, quindi, le sorelle Marchisio. Ma i problemi erano dietro l’angolo. Innanzitutto, «le giovanissime e semplici artiste, inesperte nell’arte dell’adornarsi, mal guidate e desiderose di sole vittorie artistiche, non curavano affatto i particolari, fidenti in chi a tutto questo doveva pensare per loro» (peccato che il loro impresario non si adoperasse in alcun modo per sopperire a tali mancanze).
Il pubblico non è più in sé dalla trepidazione: vuole a tutti i costi vedere queste brutte e bravissime sorelle. Lo spettacolo, ormai, sta per iniziare. Fra poco si sarebbero azionati gli ingranaggi. La tensione di colpo si fa palpabile. La mano del macchinista trema. Parte, sottovoce, un rullo di timpani. Inesorabili incalzano gli archi. Il sipario si apre, mentre il clarinetto si impenna sans répit su abbiricoccolanti arabeschi sonori. Una sgangherata Babilonia di cartapesta si para innanzi agli spettatore. In un attimo risulta a tutti chiaro come «l’impresario Merelli, fidando un po’ troppo nelle sue vittorie col solo possesso delle fortunate sorelle, trascurava del tutto la messa in scena […]. Senza alcun riguardo pel pubblico e per gli artisti, avido di denaro, aveva steso un avaro contratto coll’Ascoli, costringendo il valente vestiarista veneziano alle più ridicole meschinità». E una delle più ridicole meschinità fu senza dubbio il costume indossato da Barbara: una giubba di stoffa metallica, corta, stretta, «degna non d’un guerriero babilonese, ma d’un misero saltimbanco», cui, per coprire almeno le gambe, di fretta e furia le sarte aggiunsero un paio di pantaloncini rossi e turchini… che disgraziatamente risultarono assai più lunghi e larghi del necessario. Barbara, presentandosi ai veneziani così conciata, venne accolta da fragorose risate. La reazione della Marchisio fu tremenda: il suo fiero orgoglio piemontese era stato ferito nel profondo. Si pietrificò. Sembrava non voler iniziare a cantare, a nessun costo. Panico generale.
Il primo violino la spronava a proseguire. Il suggeritore stava già avendo le traveggole. I fratelli Gallo sgrignavano come diavoli. Merelli si faceva piuttosto il segno della croce. E proprio nel momento in cui tutto sembrava essere perduto (carriera, soldi, applausi, fiori, ricchi premi e cotillons) ecco che Barbara attacca il recitativo «Eccomi alfine in Babilonia», pronunciando le parole con tale energia d’accento, con tale ispirazione, con tale risolutezza, che sulle note più gravi («di Belo il tempio») il pubblico venne soggiogato e scoppiò in un’ovazione interminabile. Il resto è storia.
Quella Semiramide al San Benedetto garantì alle sorelle Marchisio di essere poi scritturate all’Opéra di Parigi (luglio 1860). D’altronde, questo titolo rossiniano divenne uno dei loro cavalli di battaglia. Le Marchisio, entrate in amicizia con l’anziano Rossini (che anche per le loro superbe voci compose La Petite messe solennelle), nella Semiramide rimasero per lungo tempo «Une, Perfette, Inimitabili!». Non a caso, gli impresari desiderosi di risollevare le sorti di una stagione sventurata si rivolgevano costantemente a loro. Divenne quasi una ossessione. Di questa scaltra consuetudine manageriale si ha conferma anche in una lettera scritta da Carlotta nel 1865 (dall’archivio privato di uno dei discendenti diretti, il baritono Stefano Marchisio, che segue le orme delle prozie): «Siamo arrivati per qui a Genova ed il soggiorno mi piace molto. Abbiamo già provato ed andremo in scena il 25 e purtroppo colla Semiramide perché è questa la prima volta che cantiamo qui. Dopo faremo l’Africana [di Giacomo Meyerbeer, rappresentata per la prima volta postuma il 28 aprile 1865 all’Opéra di Parigi] e sono molto contenta perché è una bellissima parte e mi sta molto bene».
Per il meraviglioso duetto dell’atto secondo, «Giorno d’orrore e di contento», le sorelle composero virtuosistiche cadenze e variazioni: un saggio di arte belcantistica che è possibile rivivere in tutto il suo splendore grazie a incisioni memorabili, come la historical recording con le divine Joan Sutherland e Marilyn Horne dirette da Richard Bonynge, alla guida della London Symphony Orchestra (Decca 1966).
Carlotta morì nel 1872, nella sua amata Torino. Barbara, «melodiosa datrice di gioia» (sono parole di Gabriele D’Annunzio), terminò la sua carriera insegnando canto al Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli, prima di ritirarsi vicino Venezia, nella sua villa a Mira. Per tutta la vita tenne fede alla «pura scuola italiana» cui era stata educata. Fra le sue migliori allieve figurano Toti Dal Monte e Rosa Raisa. Una illustre generazione passava il testimone a quella che avrebbe scritto il futuro della lirica: sempre nel segno della grandezza. Correva l’anno 1919.
Attilio Cantore