Chitarra questa sconosciuta! La vulgata generale vuole la chitarra come uno strumento capace solo di mero accompagnamento, per le scampagnate o le serate al mare attorno a un falò. La sua versione più conosciuta è l’elettrica, strumento per antonomasia scelto dalle rock star o dai neomelodici nella sua versione acustica. Ma la chitarra non è solo questo. Non è solo una componente di arredo nelle case come non può essere solo quello strumento spesso maltrattato da sedicenti artisti di musica leggera con dubbie capacità. Al contrario, la chitarra, la classica in particolare, è uno strumento nobile, al pari di violino e del pianoforte, polifonico, con un suono delicato, limpido, dolce ed intimo allo stesso tempo. Proviamo ora a conoscere più da vicino questo affascinante e meraviglioso strumento.
Per ovvie ragioni di spazio e per la natura divulgativa di questo scritto, tralascerò la descrizione organologica e l’evoluzione costruttiva dello strumento; il lettore più curioso può reperire facilmente queste informazioni. La nostra attenzione sarà posta sul periodo che va da fine ’700 a metà ’800, un viaggio per l’Europa in compagnia degli esecutori-compositori che hanno fatto non solo la storia ma anche la fortuna di questo magico strumento. La chitarra si suonava nei posti più disparati, grazie anche alle sue dimensioni e alla facile trasportabilità, ma al virtuoso di chitarra, chiuse le grandi sale, restavano solamente poche possibilità di esibizione: durante gli intermezzi di intrattenimento (tra un atto e l’altro di un’Opera) o le “Accademie”. È proprio nell’ambiente teatrale che opere come la Grande Overture op. 61 (1809) di Mauro Giuliani – che qui proponiamo nella splendida esecuzione del chitarrista inglese Julian Bream – potrebbero avere le proprie radici. Discorso diverso per le Accademie, appuntamenti privati nelle case più abbienti della città dove la padrona di casa offriva ai suoi selezionatissimi ospiti una serata tra piacevoli conversari, un buon cioccolato e il virtuoso favorito del momento. Spesso anche i padroni di casa si dilettavano di musica, suonando o cimentandosi nel bel canto. L’apprezzamento ricevuto durante le accademie rappresentava lo spartiacque tra il restare dedicandosi magari all’insegnamento, o lasciare la città per cercare fortuna altrove. Siamo nel periodo che vede nascere la figura del “libero professionista” come la chiameremmo oggi, strumentisti che vivevano dei guadagni provenienti da concerti, vendita di metodi e brani a stampa e dall’insegnamento. Esempio tangibile è l’annuncio pubblicato il 19 febbraio 1823 su Allgemaine Musikalische Zeitung:
«A sera, nel Kärntnertor-Theater, a generale richiesta, il Signor Legnani si è nuovamente fatto ascoltare, e precisamente con un’Aria dell’Adelaide di Borgogna di Rossini, che cantò alla chitarra, e con variazioni solistiche estremamente brillanti. Come contorno ci fu: 1. Ouverture da La gazza ladra; 2. Variazioni per pianofortedi Carl Czerny, eseguite dal giovane F. Liszt; 3. Cavatina dal Barbiere di Siviglia cantata da m.lle Unger». La fama e la carriera di Luigi Legnani (1790-1877) ebbe inizio il 2 luglio 1819 quando si esibì come chitarrista al ridotto del Teatro alla Scala di Milano. Arrivato a Parigi nel 1835, dovette rinunciare alle accademie in programma per una caduta che gli costò la frattura del braccio. Ad ogni modo, gli invitati alla serata non saranno sicuramente rimasti delusi dal momento che Legnani fu sostituito da Fernando Sor e Dionisio Aguado (ascolto suggerito: Rondò II, op. 2 nella magnifica interpretazione di Julian Bream), figure illustri della grande scuola chitarristica spagnola. L’arte chitarristica della penisola iberica nella seconda metà del XVIII secolo deve il suo risveglio a Federico Moretti, napoletano, e a Luigi Boccherini. Al primo si deve un metodo per chitarra che dedicava una speciale attenzione alla tecnica dell’arpeggio, poi ripresa e sviluppata dal pugliese Mauro Giuliani nella sua op. 1; mentre al secondo si devono capolavori assoluti ed insuperati come i dodici Quintetti per archi e chitarra e la Sinfonia a grande Orchestra e chitarra.
In Spagna l’esempio di Moretti fu seguito da Fernando Sor (1778 – 1839) il quale espresse da subito interesse nel movimento delle parti d’armonia e la buona condotta del basso che divennero prerogative del suo personale stile tanto da definirli «la fiamma che dove servire a illuminare il cammino incerto dei chitarristi». La musica di Sor è in stile classico con evidenti segni di influenza di Mozart e Haydn. Notevoli sono le Grandi Sonate op. 22 (1825) e op. 25 (1827) dove alla perfezione della forma si aggiunge una forza emotiva non comune. Tuttavia, il punto più alto della produzione musicale di Sor per chitarra sola è rappresentato dalla meravigliosa Fantasia Elegiaca op. 59 proposta nella splendida versione di Stefano Palamidessi. Vale la pena spendere qualche parola su quest’opera di ampie dimensioni (più di un quarto d’ora di esecuzione). La Fantasia fu composta in occasione della morte di Madame Beslay, pianista ammirata da Rossini nonché allieva, per la chitarra, di Sor. Il brano si snoda in due momenti: un’introduzione che inizia con un arpeggio di settima diminuita il quale ci catapulta immediatamente in un contesto tragico rafforzato dall’uso cromatico del basso discendente e da dolorose appoggiature. A questo attacco, che sfrutta i procedimenti retorici del lamento, segue una lunga aria strumentale per concludere con una Marcia funebre illuminata da una nuova aria in modo maggiore, come un ricordo commosso della persona scomparsa. Ed ecco che nell’ultima pagina della composizione a sole otto battute dalla fine compaiono due parole: Charlotte! Adieu! Che avvicinano la chitarra ad un personaggio dotato di parola. A tali esclamazioni rispondono suoni armonici eterei, come se una voce replicasse dall’aldilà. La Fantasia è preceduta da un Avvertissement in cui Sor esprime entusiastica ammirazione per il tripode inventato da Aguado (il tripode serviva da sostegno alla chitarra che quindi non si teneva sulla gamba ma su un sostegno apposito posto vicino al corpo dell’esecutore) per poi scagliarsi contro esecutori che suonano «musica di scarso valore trascrivendo, ad esempio, celebri ouverture (Guglielmo Tell, Semiramide, Cenerentola), spogliandole della necessaria struttura armonica. A chi si riferiva Sor? Tanti tra i suoi coevi sfruttavano la ricchezza melodica e la popolarità delle opere rossiniane per approntarne trascrizioni.
Uno di questi era sicuramente Mauro Giuliani che non si limitò alle trascrizioni di ouverture ma si spinse oltre, fino alla composizione di sei lavori su motivi e temi tratti dalle opere di Rossini nell’ottica dei pot pourri ottocenteschi tanto in voga nei salotti dell’aristocrazia e ricca borghesia. La collezione fu composta tra il 1820 e il 1828 con numeri d’opera progressivi dal 119 al 124. La più celebre tra i chitarristi e, probabilmente, tra il pubblico appassionato di chitarra è sicuramente la Rossiniana op. 119 (la prima della raccolta) che qui proponiamo nella splendida interpretazione proposta da Aniello Desiderio. Le opere scelte da Giuliani per questa sua prima prova di pot pourri sono estratte da Otello, Italiana in Algeri e Armida con alcune variazioni di carattere tipicamente virtuosistico che portano ad un vigoroso crescendo finale. Al lettore più curioso segnaliamo l’articolo di Stefano Castelvecchi, Le Rossiniane di Mauro Giuliani del 1986 dove potrà trovare tutti i riferimenti in maniera chiara e puntuale su l’intero ciclo delle Rossiniane.
La scuola italiana, di cui Giuliani è stato sicuramente l’esponente più importante, annovera anche la figura del troppo spesso dimenticato Ferdinando Carulli (1770 – 1841). Coetaneo di Beethoven, Carulli fu instancabile compositore con un corpus di 360 numeri da aggiungere a molti lavori senza numero d’opera. La musica di Carulli permea un forte senso timbrico di sapore orchestrale dovuto alla sua formazione napoletana e dalla consumata pratica della trascrizione (sempre fedele all’originale dell’autore). Influenzato dal modello di Rossini, Carulli trasportò sulla chitarra anche opere di Beethoven, Mozart e Haydn. La sapienza armonica napoletana incontra le nuove idee europee maturate in ambiente parigino nei Sei andanti op. 320 opera dedicata ad un altro chitarrista, Matteo Carcassi; l’opera è «pervasa da nobile patetismo e serenità di pensiero, e segna il punto più avanzato del romanticismo carulliano». La maggior parte della musica del compositore napoletano è rivolta ad un pubblico di dilettanti ed amatori. Tuttavia, i Solo op. 20 e 229 risultano meno convenzionali e di maggior interesse. I lavori migliori di Carulli sono ascrivibili alla musica da camera dove emerge la ricerca timbrica accompagnata da un buon equilibrio tra le parti strumentali.
Carulli in vita fu molto stimato, come testimoniato dalle opere a lui dedicate da contemporanei come, ad esempio Filippo Gragnani (tre duetti per due chitarre), Luigi Legnani (Grande Capriccio op. 34), Giuseppe Pasini (tre Sonate edite da Ricordi nel 1817) e Zani de Ferranti (44 Capricci op. 50). In chiusura ci affacciamo ad una scrittura chitarristica nuova di respiro europeo, in cui è stata recepita la lezione dei grandi romantici come Listz e Berlioz. L’interprete-esecutore del quale stiamo parlando è Giulio Regondi (1822 – 1872), fanciullo prodigio che già a sette anni suonava in pubblico accompagnato e sponsorizzato dal padre che lo presentò nelle maggiori capitali europee. Figura interessante quella di Regondi che durante la maturità abbandonò la chitarra in favore della concertina. Per i fini della nostra playlist segnaliamo il Rêverie-Notturno op. 19 e la raccolta di dieci Studi nella interpretazione di Alberto Mesirca.
Siamo nel romanticismo e, anche per la chitarra, cambiano tante cose, si affacciano nuove generazioni di interpreti che si confronteranno con i grandi interpreti del pianoforte e del violino ponendo le basi della scuola chitarristica moderna, da Tarrega, passando per Segovia fino ad arrivare ai giorni d’oggi.
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Federico Furnari