Amadeusplaylist #Fase2 Piano trio: piccola antologia per congiunti (e ora anche amici)

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Con la Piano Chamber Music Weekly Digest di questa settimana riprendiamo il viaggio attraverso il repertorio per Trio con pianoforte da dove lo avevamo interrotto, lasciando alle spalle il secolo dei lumi, per fare rotta verso la prima generazione romantica. Fedeli compagni di viaggio del pianoforte, in questa seconda tappa, rimarranno violino e violoncello: l’organico “classico” del trio è infatti per lo più gradito ai figli spirituali di Tieck e Wackenroder.

 

Iniziamo allora da due fratelli compositori che di Schlegel (Friedrich, in questo caso) furono effettivamente nipoti acquisiti, ossia Felix e Fanny Mendelssohn (la zia, Dorothea Mendelssohn, figlia maggiore di Moses, aveva infatti divorziato dal banchiere Simon Veit per sposare il poeta e critico letterario). Il primo è autore di due cammeil’op. 49 in re minore (1839) e l’op. 66 in do minore (1845), magnificamente recensiti da Schumann, che saluta Mendelssohn come «il Mozart del nostro tempo, il più brillante dei musicisti, quello che ha indicato più chiaramente le contraddizioni dell’epoca e il primo che le ha riconciliate tra loro». In entrambi i Trii mendelssohniani, approdo ormai maturo alla produzione da camera, è evidente il debito con Beethoven, soprattutto per l’equilibrio raggiunto tra le parti, e con i Trii op. 99 e 100 di Schubert, che avevano traghettato definitivamente il genere al di fuori dell’ambito dell’intrattenimento mondano. Proprio riferendosi al Trio in re minore, Schumann ebbe a scrivere: «questa è un’eccellente composizione che tra qualche anno delizierà i nostri nipoti e pronipoti». Se dunque anche il lettore moderno, come l’ascoltatore antico, desiderasse restarne ammaliato, un’imperdibile interpretazione di riferimento potrebbe essere quella dell’Istomin-Stern-Rose Trio, proposta nella Playlist a questo link.

 

D’altro canto, i lavori di Schubert e del fratello Felix rappresentano l’orizzonte  estetico entro cui si sviluppa il Trio in re minore op. 11 di Fanny Mendelssohn, che si apre quasi con una cripto-citazione del Concerto per violino op. 64del fratello: pubblicato postumo nel 1850, è certamente uno dei lavori più significativi del catalogo de «la migliore musicista donna della sua epoca» (Clara Wieck): lo proponiamo nel recente cd del London Bridge Trio (Somm 2019), dal titolo The Leipzig Circle, dedicato appunto ai “Mendelssohn Siblings” e ai coniugi Schumann.

 

Anche l’unico Trio composto da Clara Wieck (in sol minore op.17, 1846) è tra i più alti esiti e merita infatti un ascolto attento: cantabilità struggente, raffinato dialogo contrappuntistico, indipendenza delle parti ne fanno un capolavoro certo non secondo ai lavori del marito. Robert Schumann, del resto, meditava la composizione di un trio sin dal 1842, ma solo nel 1847, anno estremamente proficuo per il compositore, gli sforzi si concretizzarono nel Trio di pianoforte in re minore op. 63 e quello in fa  maggiore op. 80, forse proprio stimolati dal lavoro appena precedente della moglie. Un altro Trio in sol minore op.110 risale infine al 1851.

 

D’altra parte, il senso di novità «della scuola neoromantica, l’arte di suonare il piano, l’individualità, l’originalità, o piuttosto il genio»erano caratteristiche che sull’Allgemeine Zeitung, alcuni anni addietro, si ascrivevano anche al Trio di un altro giovane “romantico”: parliamo naturalmente di Fryderyk Chopin e del suo primo (e unico) appuntamento con il genere, tra il 1828-29. Se è vero che, in generale, non esiste composizione del polacco in cui il pianoforte non rivesta un ruolo principale, coprotagonista prediletto nella sua scarna produzione cameristica può certo considerarsi il violoncello: non solo perché due delle amicizie più influenti del compositore erano violoncellisti dilettanti – Auguste-Joseph Franchomme a Parigi e il principe Antoni Henryk Radziwiłł a Varsavia, dedicatario appunto del Trio in sol minore op. 8– ma forse proprio per le caratteristiche timbriche e l’ampiezza di registri dello strumento. Lo proponiamo nell’incisione di Jan Krzysztof Broja, Andrzej Bauer, Jakub Jakowicz per il progetto The Complete Works of Fryderyk Chopin on historical instruments pubblicata dall’Istituto Chopin di Varsavia (2010). E, come si chiedeva Schumann, non è forse «più nobile di quanto si possa immaginare? più sognante di quanto sia mai stato cantato da un poeta?».

 

Altrettanto sorprendente la raccolta di Trii d’esordio del giovane César Frank – anche qui, come era stato per Beethoven, siamo di fronte ad un’opera prima: la pubblicazione del 1843, sottoscritta niente meno che da Meyerbeer, Liszt, Donizetti, Halévy, Chopin, Thomas e Auber, fu certamente un incoraggiante debutto per Frank, combattuto tra la carriera del virtuoso e quella del compositore. Estensione degli accordi, tremoli e lunghi passaggi in ottave, virtuosismi alla Liszt e premonizioni di Dvořák non ne fanno esattamente delle composizioni per neofiti. Del Trio n.1, che secondo Vincent d’Indy, discepolo di Frank, «marcò un’epoca della storia della musica», riprendendo il discorso là dove Beethoven lo aveva interrotto, proponiamo la storica (ma sempre mozzafiato) live performance di Richter-Kagan-Gutman (Mosca, 1983), raggiungibile qui.

 

Alieno al genere fu invece Franz Liszt, di cui in questa sede possiamo citare solamente l’adattamento della Vallée d’Obermann (dal Première année, dedicato alla Svizzera, degli Années de pèlerinage), nella trascrizione dell’allievo Edward Lassen e revisionato dal compositore medesimo, e un adattamento di suo pugno della Rhapsodie hongroise n.9, “Le carnaval de Pesth”.

 

D’altra parte, il connubio pianoforte-violino-violoncello non ha sempre sollevato unanimi apprezzamenti tra i compositori. «Un trio presuppone uguaglianza di diritti e omogeneità, come avviene nel trio per archi. Ma come può esistere tale omogeneità fra strumenti ad arco da una parte e pianoforte dall’altra?» si interrogava Pëtr Il’ič Čajkovskij in una lettera del 1880 alla sua mecenate, la contessa von Meck, che invano sperava in un trio vergato dal compositore – al medesimo anno risale lo “scarsamente debussyano” Trio di Debussy, scritto in un’atmosfera familiare, mentre il compositore diciassettenne era al seguito della von Meck in un viaggio a Firenze, insieme al violinista Władysław Pachulski e al violoncellista Pyotr Danilchenko.

 

«I miei organi uditivi sono fatti in modo da non poter ammettere alcuna combinazione con violino e violoncello», si scherniva invece Čajkovskij,«i diversi timbri di questi strumenti si combattono ed è per me, vi assicuro, una vera tortura ascoltare un Trio o una Sonata con violino e violoncello».

Resta quindi misterioso il motivo per il quale, appresa la scomparsa di Anton Rubinstein, nei confronti del quale Čajkovskij era animato da sincera stima, il compositoresi sia precipitato a scrivere proprio un Trio (rimasto poi l’unico nel suo catalogo, con numero d’opera 50), con dedica metà in francese e metà in italiano «a la mémoire d’un grand‘artiste. Roma gennaio 1882». Nondimeno un gradevole ascolto, che a margine di balletti, sinfonie e concerti, rivela un lato del compositore inedito e riservato. Lo suggeriamo in una storica incisione del 1952, ad opera di Kogan, Rostropovich e Gilels.

 

Con il Trio op. 50, per altro, Čajkovskij inaugurò suo malgrado una tradizione di epitaffi musicali: il compositore, scomparso il 5 ottobre 1893, risulta infatti a sua volta dedicatario del secondoTrio élégiaque op.9, approntato da Sergej Rachmaninov in quell’occasione (il primo Trio era già stato scritto, ma non venne mai pubblicato il compositore vivente, mentre il secondo, dopo la rapida stesura, subì due revisioni, nel 1907 e nel 1917). Per qualche ragione, anche altri trii per pianoforte sono legati ad eventi luttuosi: è il caso di Bedřich Smetana, che scrive il suo Trio in sol minore op. 15 per commemorare la figlia Bedriska, morta ad appena quattro anni (il compositore sarà per altro destinato a perdere tre delle quattro figlie). Tinte chiaroscurali e malinconiche si ritrovano anche nel brahmsiano Trio op. 40 – con corno in luogo del violoncello, in particolare nell’Adagio mesto, ove trapela il composto dolore del compositore per la perdita della madre. Per l’organico “classico” con il cello, d’altra parte, Johannes Brahms è autore di capolavori come il n. 1 op. 8 (1855) e il n. 2 op. 87 (1884) e il n. 3 op. 101 (1887), luoghi dell’ambiziosa sintesi tra equilibri classici e fremiti romantici, ma anche dell’originalità architettonica e dell’eccezionale facoltà inventiva del compositore, come trapela nell’integrale di Yo-Yo Ma, Leonidas Kavakos ed Emanuel Ax.

 

Come per Brahms, anche i due Trii di Camille Saint-Saëns si collocano idealmente in due punti molto lontani della parabola creativa del compositore, e non potrebbero suonare tra loro più diversi: il primo, in fa maggiore op. 18 (1863), festoso e ottimista, richiama la limpidezza mendelssohniana, ma con un vocabolario armonico francese che sembra non voler cedere alle “prerogative tedesche” sulla musica strumentale, il secondo, in mi minore op. 92 (1892), più solenne, rompe lo schema dei quattro movimenti aggiungendone un quinto.

 

Indugiando un poco nella Salonmusik di fine secolo prima di prendere il volo verso il Novecento, non si possono trascurare i due Trii op. 11 op. 34 di Cécile Chaminade (1881 e 1887); nuances tardo-romantiche si ritrovano poi nelTrio in re minore n.1 op. 32 di Anton Arensky (che, dedicato alla memoria del violoncellista Davïdov, ha come riferimento formale il trio mendelssohniano nella medesima tonalità) e nei lavori cameristici del suo allievo Paul Juon, il “Brahms russo” naturalizzato svizzero, di cui raccomandiamo almeno i Miniature Trios, stupendi pezzi caratteristici.

 

Alla ricerca di repertorio meno virtuosistico o per performance domestiche che possano coinvolgere giovani “musicisti in erba”, potremmo invece imbatterci nei due Kindertrio op. 35 di Julius Klengel. Tra le proposte forse meno navigate della letteratura per pianoforte con violino e cello, figurano poi il Trio op. 1 del dodicenne Erich Wolfgang Korngold (1909), il Trio op. 43 di Hans Pfitzner (1937) e, cronologicamente precedenti, i due Trii di Max Reger (tra cui il secondo, op. 102, è sicuramente il più riuscito): oltre alla musica per tastiera, è proprio nella meno nota produzione cameristica che il compositore trova il suo ubi consistam. Al centro di crescente interesse, negli anni recenti, è anche il repertorio da camera di Dmitri Šostakóvič, di cui si segnalano i Trii in do minore op. 8 (1923) e in mi minore op. 67 (1944).

 

Prendiamo infine congedo con una partitura «dai colori sgargianti, tra le più alte della musica da camera di tutti i tempi»in cui «colpisce l’equilibrio tra la qualità dell’invenzione e il controllo di un’arte compositiva superba» (Cesare Fertonani): il riferimento è al Trio in la minore di Maurice Ravel (1915). Esprit de géométrie, equilibrio “classico”, riferimenti alla musica basca, omaggio alla tradizione barocca sono solo alcuni degli elementi che contribuiscono a rendere questo trio un capolavoro cameristico assoluto, consigliatissimo nelle interpretazioni del Beaux Arts Trio (Philips, 1984 e Decca, 1979/1985) o nella più recente versionedi Renaud e Gautier Capuçon con Frank Braley al pianoforte (EMI, 2002).

 

Puoi ascoltare la Playlist di questa settimana ai seguenti link Apple Music e Spotify.

 

Silvia Del Zoppo

 

 

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