Amadeusplaylist #Fase2 Piano Trio: piccola antologia di musica “da camera” con pianoforte per congiunti

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«Tres faciunt collegium», asserisce una nota massima giuridica romana. E allora, quale miglior inizio per la nostra Piano-Chamber-Music Weekly Digest del Trio con pianoforte?

Figlio delle Sonate a due e a tre e delle Sonate per cembalo di epoca barocca, il cosiddetto Piano Trio può essere considerato prototipo della musica da camera moderna in senso stretto, che attorno al principe indiscusso della Hausmusik, il pianoforte, raccoglie come usuali co-protagonisti violino e violoncello – non escludendo tuttavia organici alternativi e originali, che avremo modo di illustrare nei prossimi appuntamenti. Le prime forme, come le Sonate per clavicembalo e violino op. 3 di Jean-Joseph de Mondonville (1734) e le Pièces de clavecin en concerts di Jean-Philippe Rameau (1741) si contraddistinguono proprio per la centralità dello strumento a tastiera, a discapito delle parti di archi, in taluni casi ad libitum, cioè opzionali, secondo gusto e disponibilità. Emblematica in questo senso è l’indicazione colla parte per il violoncello, spesso riportata a significare il mero rinforzo del basso dello strumento a tastiera.

Quanto alla destinazione di tale repertorio, una risposta piuttosto ovvia risiede proprio nella pratica domestica, per il diletto di esecutori di ogni gusto e livello. Per citare un esempio “illustre”, si pensi al beethoveniano Trio WoO 39, composizione in un solo semplice movimento per la piccola Maximiliane Brentano (10 anni), più tardi dedicataria anche della Sonata per pianoforte op.109: ai genitori di lei, Franz e Antonie, come noto, Beethoven era legato da intima amicizia. Del resto, se l’Hausmusik non chiede necessariamente performance professionali, d’altra parte non le esclude, e in molti casi testimonia quanto, nel XVIII secolo, il divario tra amatori e professionisti fosse legato più alla posizione sociale (aristocratico o musicista di corte) che alla reale perizia tecnica.

Dunque, la ricerca di occasioni performative accessibili a dilettanti potrebbe ben cominciare da esempi “proto-classici”, più simili a sonate per pianoforte con sporadici interventi violinistici, in cui il violoncello si limita al rinforzo dei bassi. Componimenti in tal guisa si trovano in Johann Baptist Vanhal, in Leopold Koželuh e nei più stimolanti, ma comunque privi di asperità, Trii KV 10-15 di Wolfgang Amadeus Mozart, scritti nel 1764 per la regina Sophie Charlotte e fruttati una ricompensa di cinque ghinee al giovanissimo Mozart durante il suo soggiorno londinese. A queste prime sperimentazioni fanno seguito otto esiti più maturi, tra cui il KV 498, che propone un originale organico, con pianoforte accompagnato da clarinetto e viola e porta il curioso soprannome di Kegelstatt-Trio(“Trio dei birilli”), perché forse composto durante una partita di birilli, o comunque eseguito in un contesto informale e familiare, con la giovane Franziska Jacquin, allieva di Mozart, al piano, il virtuoso Anton Stadler al clarinetto e il compositore stesso alla viola. Ma quella dei trii con clarinetto «è un’altra storia, e la si dovrà raccontare un’altra volta»…

Ugualmente complesso ma forse meno ricco d’inventiva nell’elaborazione melodica, il Trio in re VB 171 di Joseph Martin Kraus, coetaneo di Mozart e morto appena un anno dopo, presenta ancora reminiscenze tipiche della scuola di Mannheim, come passaggi all’unisono, l’indicazione tasto-solo nell’accompagnamento pianistico e ornamentazioni dal sapore cembalistico. La chiusa a capriccio, lunatica e fantasiosa, sembra rimandare a Haydn. Del resto, persino i primi lavori di quest’ultimo presentano retaggi barocchi e, più in generale, molti degli esempi nel suo catalogo cronologicamente successivi a Mozart, sono in realtà piuttosto retrospettivi, non ricercando quell’indipendenza e bilanciamento delle parti che caratterizza ad esempio i suoi quartetti. Nondimeno, proprio per il loro tratto distintivo più marcato, la centralità del pianoforte, Charles Rosen non esita a definirli, insieme ai Concerti per pianoforte dello stesso Mozart, «i migliori lavori pianistici prima di Beethoven»: brillantezza che non sfocia mai in vuoto virtuosismo, ma anzi rivelatrice di una certa spontaneità improvvisativa, assente in altre “più celebrate” composizioni.

Altrettanto prolifico nel genere è certamente un allievo di Haydn, Ignaz Pleyel, che diede prova di non ripudiare commistioni e rimescolamenti di tonalità, movimenti e organici strumentali, “convertendo” anzi interi trii con pianoforte (B 465–70) in trii di archi (B 410–15) e addirittura quartetti di flauti (B 387–92). Il tutto in chiara assonanza con il gusto corrente, migliore garanzia per il compositore di imperitura popolarità, almeno tra i contemporanei.

D’altra parte, proprio intorno ai trii si consuma anche il conflitto tra il maestro Haydn e un altro giovane allievo: stiamo naturalmente parlando di Beethoven e la composizione oggetto del contendere è proprio la sua opus princeps, il primo numero del catalogo del genio di Bonn di stallo a Vienna. La leggenda sull’op. 1vuole che i tre Trii con pianoforte, dedicati al principe Lichnowsky, grande amante del genere, fossero già stati ascoltati e ammirati durante una delle soirée presso la dimora dell’aristocratico alla presenza di Haydn, il quale avrebbe lodato i primi due lavori, suggerendo però a Beethoven di non pubblicare il terzo, in do minore. Ottusa incomprensione o maligno risentimento? Quel che è certo è che il trio in questione si rivelò il numero di maggior successo della silloge e la pubblicazione presso Artaria, nel cui frontespizio Beethoven omise deliberatamente la dichiarazione dei suoi “natali haydniani”, fruttò una cospicua somma al giovane compositore. Il confronto con il genere annovera poi anche più celebri lavori: i due Trii op. 70, immediatamente successivi alla Sinfonia pastorale, e l’op. 97 in si bemolle  maggiore, che dal dedicatario Rodolfo d’Asburgo, prende anche la titolazione spuria di “Arciduca”, figurando tra i capolavori assoluti per impianto formale, invenzione melodica e timbrica. In tali composizioni, in particolare, s’intensifica la progressiva emancipazione del violoncello, non più relegato a supporto armonico, come sarà poi nei Trii di Schubert D 898 e 929. Non solo: il nuovo schema in quattro movimenti accresce proporzioni e dunque rilievo attribuito al trio, non più in posizione di completo subordine rispetto ai generi classici per antonomasia: quartetto e sinfonia.

Chiudiamo questa prima rapsodica rassegna antologica segnalando due compositori tra i meno frequentati, e nondimeno interessanti, offrendo un piccolo spoiler sul prossimo episodio, che speriamo possa destare la curiosità nel lettore. Si tratta dei tre Trii opp. 2, 3 e 10  di Luigi Ferdinando di Prussia, figlio del Principe Ferdinando e nipote di Federico il Grande. Avviato all’arte della guerra, ma anche, come gli altri figli cadetti, della musica, fu indiscusso talento musicale del casato Hohenzollern. Assiduo frequentatore dei salotti berlinesi, dove amava esibirsi come pianista e improvvisatore, tanto da essere annoverato da Reichardt tra i migliori virtuosi del tempo, compositore ammiratissimo da Beethoven (che gli dedicò il Terzo dei suoi Concerti per pianoforte), divenne in breve attivo interlocutore delle maggiori personalità romantici, quali August W. e Friedrich Schlegel, Schleiermacher, Wackenroder, Tieck.
Dulcis in fundo… il Grand piano trio in Mi Maggiore AV 52 del 1809 di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann. I più conosceranno questo concittadino di Kant per la sua produzione letteraria intorno al fantastico e al grottesco, che informò marcatamente l’immaginario poetico del primo Romanticismo tedesco: ma Hoffmann fu anche compositore militante. Il suo Trio, che segue ancora un’impostazione armonico-formale classica, tradisce riferimenti beethoveniani (si veda ad esempio lo Scherzo, su rapido ritmo puntato), tensioni e forze centrifughe che preludono a soluzioni di scrittura non più classiche.

Silvia Del Zoppo
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