Melodia e pedale, sensibilità e tecnica, furono il segno della pianista catalana Alicia de Larrocha. Ecco la storia della Regina del pianoforte
Alicia de Larrocha, la Gran Signora del pianoforte iberico, nacque nel 1923 a Barcellona; precisamente in Carrer de Còrseca numero 263, all’intersezione con la Carrer Enrique Granados. È il cuore del popoloso “Ampliamento”, l’elegante e borghese barrio Eixample, ideato dall’architetto Ildefons Cerdà.
Granados entrò nella vita della piccola Alicia dal latte materno (sentì sempre il fascino «dell’ardente espansività del suo lirismo; dei ritmi ingegnosi e picareschi, dell’intima poesia e del profumo svanito della sua malinconia»). Sia la madre, Teresa de la Calle, che la zia Carolina, erano state allieve del celebre pianista-compositore catalano. In un ambiente musicale così ben predisposto fu naturale che lo svezzamento iniziasse subito.
A 4 anni fu affidata a Frank Marshall; questi, fra la Prima guerra mondiale e il conflitto civile, proseguiva l’attività didattica del suo maestro Granados, impiantando i fondamenti attraverso lo studio di Bach, Mozart, Beethoven e Chopin.
Il Gran Maestro del Pedale
La filiazione Granados-Marshall-Larrocha non è solo un fatto legato alla successione nella guida dell’Academia pianistica intitolata ai due primi maestri. Si può riassumere nel valore assegnato dalla Scuola catalana al dettaglio sonoro, al legame fra “sonorità” e uso del Pedale. Una caratteristica che risaliva al rinomato docente del Conservatorio municipal di Barcellona, Juan Baptista Pujol, maestro di fuori-classe come Isaac Albéniz, Granados, Ricardo Viñes e Joaquin Malats.
Granados affidò le sue riflessioni in materia a un Metodo teorico-pratico par el Uso del los Pedales del Piano. Rimasto a lungo inedito, servì di base al più chiaro e sintetico Estudio práctico sobre los pedales del piano (1919) e alla successiva trattazione, La sonoridad del piano (1940) di Marshall.
Il Gran Maestro del Pedale fissava così le nozioni-base per ottenere un suono “legato” di gran fascino, per connettere raffinatamente gruppi di note di sonorità differenti, per illuminare di colore il profilo di una melodia popolaresca. Chi si impossessava totalmente di questa tecnica poteva poi distaccarsene, maturando con il proprio talento un “suono” personale, come ha sempre ricordato la Señora Alicia.
La tecnica del Pedale in Alicia de Larrocha
La pianista catalana sosteneva che la tecnica del pedale era in costante sviluppo. Era sempre in relazione allo strumento a disposizione e all’acustica della sala. Per questo desiderava provare a lungo lo strumento che aveva a disposizione prima di ogni concerto.
Confessava che il suo stesso uso del pedale era mutato radicalmente nel corso degli anni; invece di metterlo immediatamente sulla nota, come suggerivano Granados e Marshall, preferì, ove consentito, inserirlo prima della nota, onde conseguire il massimo della sonorità. Ecco forse avvicinato uno dei segreti del suo pianismo: come facesse una donna con mani e braccia tanto piccole a ottenere sonorità colossali come nella conclusione del Primero cuaderno di Iberia di Isaac Albéniz, El Corpus Christi en Sevilla.
La percezione della processione religiosa, il suo approssimarsi e il suo svanire, necessitano piani sonori molteplici e differenziati, intrecciandosi marce, preghiere e rintocchi campanari in festoso crescendo architettonico.
Con una simile sensibilità al fatto “sonoro” si capisce anche la diffidenza della Larrocha verso l’incisione discografica; i ritocchi modificavano la personalità del suono. «E senza quella, non c’è nulla». Ma per nostra fortuna incise molto, prima per la Hispavox, poi per la Voce del Padrone e la Decca. Ora Decca raccoglie un corpus meraviglioso di ben 41 cd (la musica di Spagna, ma anche il suo poetico Schumann e Mozart) in prossimità del decennale della morte (25 settembre 2009).
Il senso del ritmo
Potremmo aggiungere anche un altro elemento decisivo nel pianismo catalano di Alicia de Larrocha, sussunto fino nella più piccola fibrilla: lo spiccato e originale senso ritmico (a partire dal luminoso genio di Scarlatti e del suo epigono padre Antonio Soler). Sempre tenendo presente, come ricordava Concita Supervia, la celebre cantante catalana a cui noi italiani dobbiamo la rinascita moderna di tre grandi ruoli del Rossini comico, che nella musica spagnola «un rallentando è il lusso più grande che ci si può concedere; te lo puoi permettere solo molto di rado».
Naturale compimento al lavoro sul suono e sul ritmo, il culto iberico della melodia, riassunto in alcuni capolavori della lirica da camera come le dodici eleganti Tonadillas en un estile antiguo e le sei Canciones amatorias di Granados e le sublimi sette Canciones populares españolas di Falla. Opere che Larrocha incise con la collaborazione della calda voce sopranile dell’aragonesa Pilar Lorengar; esiste anche un live delle Tonadillas di Maniel de Falla con la deliziosa purezza della concittadina Victoria de Los Angeles all’Hunter College di New York.
Le collaborazioni celebri di Alicia de Larrocha
Questo culto filtra in quelle opere pianistiche che trasferiscono nello strumento i canti della sua terra, di cui Alicia de Larrocha è stata rivelatrice impareggiabile. Parliamo non solo dei capolavori giustamente celebri come Iberia e Goyescas, tutto Falla, la sua scelta di Turina; ma dei Cantos de España di Albéniz, dei sei Pezzi sopra canti popolari spagnoli di Granados; delle Impresiones intimas e del cuarto cuaderno della Musica Callada di Federico Mompou; di brani Montsalvatge, Surinach, Rodrigo, Nin- Culmell.
Altre collaborazioni (maturate poi in amicizie) con illustri voci barcellonesi, videro Alicia accompagnare la grande liederista Conchita Badía, ammirata da Falla, Villa-Lobos e Rodrigo e poi la sua più famosa allieva, Montserrat Caballé; senza dimenticare il tenore José Carreras.
Il legame con il canto fu anche oggetto di un divertente episodio, occorsole prima di un concerto estivo in una cittadina della costa catalana. Salita sul palco si accorse che il pianoforte era chiuso a chiave. Siccome si tardava a trovare chi teneva la chiave, la pianista disse al pubblico: «Se volete, canto». D’altronde, quella di cantare quello che sentiva, era stata la sua prima facoltà.
La musica nel sangue
Lo raccontò il compositore Joaquín Turina nel programma del primo concerto in pubblico, (14 maggio 1929, Accademia Marshall). Egli riferiva ai lettori del madrileno Debate l’incontro avuto quattro mesi prima con «l’adorabile creatura». «Cosa fa questa bambina?», chiese Turina a Marshall, docente che la seguiva da un anno e mezzo. Il Maestro rispose: «Dall’età di ventisei mesi canta tutto quello che sente, e lo ripete sul pianoforte».
Dopo queste parole Marshall mise la piccola di spalle al piano suonando «varie scale consonanti e dissonanti. La bimba le cantava armonizzandole alla sua vocina. Poi suonò con le piccole mani che non prendevano un’ottava di estensione opere di Granados; tra questi, La campana de la tarde e El hada y el niño (La fata e il bambino)», il quarto e il secondo dei pezzi facili raccolti nei Bocetos (Schizzi).
«La musica si dipanava fra le sue dita dolcemente, con logica musicalità, senza perdere le inflessioni espressive. Non c’è nulla nelle sue interpretazioni di lezioso o affrettato. Suona con l’appiombo di una persona matura».
Il successo nel mondo
Con il passaggio dall’adolescenza alla maturità quelle qualità non scomparvero come in molti bimbi prodigio; continuarono ad affinarsi, portando il nome di Alicia de Larrocha alla posizione unica di Regina della musica iberica. Pur appoggiata da Cortot, Arrau e Rubinstein, la consacrazione planetaria dovette attendere il debutto in America, dove Alicia venne adorata nei maggiori templi musicali, dall’uomo della strada a Van Cliburn.
In Italia fece le sue prime apparizioni a metà degli anni ’50 (secolo scorso) in coppia con l’insigne violoncellista Gaspar Cassadò, a Roma, alla Chigiana di Siena, a Napoli; a partire dagli anni ’80 fu una presenza fissa e amatissima nelle stagioni sinfoniche e cameristiche di tutto il Belpaese.
Quanto fosse ammirata dai colleghi e quanto rimanesse umile è dimostrato da un aneddoto raccontato da Gregor Benko. Dopo uno dei numerosissimi recital alla Avery Fischer Hall di New York, salirono al suo camerino Claudio Arrau e John Browning. Alla loro destra c’era Horowitz.
Alicia uscendo dall’ascensore vide Arrau e si mise, raggiante, a parlare in spagnolo a raffica. Quando si girò e vide Horowitz, la sua faccia diventò seria «come davanti al plotone di esecuzione. Si inginocchiò subito e baciò il lembo dei pantaloni di Horowitz. Forse lui fu troppo disorientato per essere imbarazzato; gli altri sapevano di aver assistito a una scena in qualche modo storica».
Umile sempre, come desiderosa di insegnare e imparare. Lo disse anche a un medico che non sapeva che fosse pianista e le prescriveva oltre a un calmante per l’artrite, esercizi come suonare la macchina da scrivere o il pianoforte. «Grazie dottore. Proverò il pianoforte. Non è mai troppo tardi per imparare!»
Giovanni Gavazzeni