di Valentina Bonelli
Una scomparsa tristemente attesa quella della danzatrice e coreografa americana Trisha Brown, avvenuta lo scorso 18 marzo all’età di 80 anni, ma solo due giorni dopo comunicata sui social networks dalla sua compagnia. Da tre anni priva della sua fondatrice e guida, perduta negli oblii dell’Alzheimer: feroce contrappasso per una mente tanto brillante e speculativa. Il côté intellettuale spiccato era un tutt’uno con l’evidenza fisica del corpo per la capofila della post-modern dance americana, dalla natia West Coast approdata a New York negli anni ’60, attratta dai sommovimenti sociali e artistici che stavano cambiando il corso del Novecento. La giovane danzatrice che aveva sperimentato sulla sua figura lunga e spigolosa ogni tecnica e stile, vi si immerse guidata dall’istinto del corpo ma anche da un preciso programma, catalizzando intorno al collettivo Jutson Church coreografi, compositori e artisti visivi di quella fervente stagione. Scardinati i precetti della modern-dance, il rigore astratto della composizione e la leggerezza fisica dell’esecuzione avrebbero guidato l’intero percorso artistico di Trisha Brown, danzatrice e coreografa di rara longevità.
Dall’affermazione con gli “equipment pieces” con i performers sospesi da corde sulle facciate dei grattacieli, agli “accumulation pieces” dove si sommano sequenze matematiche di movimenti, fino alla fase che lascia i tetti dei palazzi o le gallerie d’arte per entrare negli spazi canonici dello spettacolo di danza, con scenografie, costumi e musiche, firmati da Robert Rauschenberg o Laurie Anderson. Dagli anni Ottanta la musica classica iniziò ad attrarre la coreografa, che con una fluidità di movimento sempre più suadente nella sua geometria strutturale firmò anche coreografie d’opera, tra cui l’Orfeo di Monteverdi per il Théâtre de La Monnaie di Bruxelles e la Carmen di Bizet per il Teatro di San Carlo di Napoli. Ancora vive nella memoria le ultime apparizioni italiane della compagnia: alla Fondazione Maramotti di Reggio Emilia con gli abbacinanti Early works e al Ravenna festival con un presago “Farewell tour”. E chissà quale sarà la fortuna della Trisha Brown Dance Company, erede di un repertorio di oltre 100 titoli che dovrà sfuggire alla rigidità museale.