Ennio Morricone è morto stamattina all’alba in una clinica privata di Roma, la sua città, per le conseguenze di una caduta. I funerali si terranno in forma privata.
Nato il 10 novembre 1928, aveva poco meno di 92 anni.
A lui, creatore celeberrimo nel mondo di musica “applicata” (quella per il cinema) e autore meno noto di musica “assoluta” (come lui amava definire la produzione legata alla sua attività di compositore “puro”), nel corso dei decenni Amadeus ha dedicato ben più di un articolo sulle sue pagine. Dalle interviste intense e vive di Valerio Cappelli, che proprio tra pochi giorni debutta a Ravenna Festival con una sua pièce teatrale interpretata e diretta da Sergio Castellitto con Isabella Ferrari che ha il privilegio di una colonna sonora fatta di inediti morriconiani, a tanti approfondimenti e riflessioni.
Riproponiamo integralmente quindi ai lettori di Amadeusmagazine.it con orgoglio e piacere il ritratto che Cesare Fertonani – autore tra l’altro della Laudatio con cui l’ Università degli Studi di Milano conferì a Ennio Morricone la laurea honoris causa in Scienze della musica e dello spettacolo il 26 gennaio 2017 – scrisse per il nostro giornale in occasione dei suoi 90 anni nel novembre 2018.
Un ricordo personale, infine. La sua capacità di illuminarsi ancora per la sua musica e per i musicisti che la suonavano e di commuoversi per i riconoscimenti di affetto e stima del pubblico. Le poche parole quasi stentate a volte che pronunciava e invece si rivelavano battute spesso fulminanti e romanescamente sornione.
E la tenerezza amorevole nei confronti della moglie Maria, come lui semplice come lui accogliente, come lui vera. A lei e ai suoi cari le nostre condoglianze e il nostro pensiero.
Paola Molfino
Direttore responsabile Amadeus
Il 10 novembre 2018 Ennio Morricone compie novant’anni. È difficile pensare a un altro italiano che come lui sia tanto conosciuto e apprezzato in tutto il mondo, da Londra a Sidney, da Los Angeles a Mosca, da Tokyo a Rio de Janeiro, da Stoccolma a Pechino; oggi gli unici altri nomi nazionali della stessa portata planetaria sono forse Sofia Loren e Renzo Piano. Il secondo Oscar del 2016 per la colonna sonora di The Hateful Eight di Quentin Tarantino, dopo quello alla carriera del 2007 «per lo straordinario e variegato contributo all’arte della musica», spiccano tra le decine di premi e riconoscimenti ricevuti e rappresentano il coronamento di una carriera senza pari tra i compositori viventi. La musica di Morricone ha attraversato e interpretato il proprio tempo con acutezza e pregnanza rare, connotandolo come pochissime altre, e la grandezza del compositore sta anche – e forse soprattutto – in questa capacità di leggere il presente e restituirlo in suoni con efficacia straordinaria. Il fatto che la fama di Morricone si debba innanzi tutto alla musica «applicata» (come lo stesso compositore definisce la sua produzione al servizio del cinema per differenziarla da quella «assoluta», concepita come libero e incondizionato atto creativo) nulla toglie alla fascinazione né tanto meno alla qualità della musica stessa. Anzi, al contrario. Il vecchio pregiudizio di considerare separati i due ambiti della produzione di Morricone, da un lato la musica «assoluta» ascrivibile al mondo delle neoavanguardie e dall’altro quella «applicata» composta per i maggiori registi del cinema internazionale, appare ormai tanto fittizio quanto sterile. Occorre invece sottolineare quanto il percorso di sperimentazione, compiuto nell’ambito della musica d’avanguardia, si riverberi costantemente nel lavoro «applicato», le cui invenzioni timbriche, soluzioni formali, strategie compositive e commistioni stilistiche hanno fatto epoca nella storia del cinema. E per converso occorre rilevare quanto l’esperienza del lavoro «applicato» si sia riversata o quanto meno rispecchiata nella produzione «assoluta».
L’unicità di stampo della musica di Morricone, che da questo punto di vista può essere considerata senza pari negli ultimi sessant’anni, è assicurata da aspetti tra loro indissolubilmente intrecciati: la tensione morale dell’atto compositivo, l’impulso costante alla sperimentazione, l’unitarietà delle tecniche di scrittura, la fiducia nelle potenzialità non soltanto espressive, emozionali e comunicative ma anche utopiche della musica; e, certo non ultima, un’idea di contemporaneità antidogmatica e antiideologica e dunque quanto mai inclusiva e flessibile. Già in Suoni per Dino per viola e due magnetofoni (1969), dedicato all’amico Dino Asciolla, s’incontrano alcuni tratti tipici dell’arte compositiva di Morricone: l’estrema riduzione del materiale sonoro e l’impiego di sistemi seriali (tutto il pezzo è basato su una successione di sole quattro note) nonché l’accento posto sulla varietà delle tecniche di combinazione, sovrapposizione e permutazione di tale materiale organizzato in unità modulari; il senso di sospensione di costrutti armonici dalle allusioni tonali o modali; l’immaginativo ricorso all’elaborazione elettronica del suono; il ruolo generativo, anzi si direbbe primigenio, del timbro.
D’altro canto la cifra sperimentale del pensiero e della scrittura mirata alla ricerca di una propria voce compositiva, unita a una non comune sensibilità per l’assimilazione degli orizzonti storici e culturali più diversi (dalla tradizione colta alle musiche etniche, dal pop al jazz e al rock), ha consentito parallelamente a Morricone di articolare un’amplissima gamma di relazioni semantiche e drammaturgiche tra la musica e la rappresentazione narrativa del cinema, contribuendo ad arricchire in misura determinante i nessi tra le due arti. Forte della convinzione che la musica sia un linguaggio significante autonomo duttilissimo, in grado di esprimere infinite sfumature di senso nel suo incontro con le immagini e con la parola, Morricone ha sviluppato un’idea di colonna sonora che instaura un rapporto critico e interattivo, di vero e proprio commento, nei confronti della pellicola e non si limita affatto ad accompagnarla o, peggio, ad assecondarla per così dire all’unisono. Da questa posizione propositiva e di distanziamento critico sono derivati nei decenni, come non è difficile immaginare, sodalizi molto fruttuosi ma anche scontri con i registi. Ed è anche per questa ragione che Morricone, almeno da un certo momento in poi, ha preferito limitare le proprie collaborazioni a una cerchia ristretta di registi con i quali si sente particolarmente in sintonia. Se nel cinema ha composto per Bernardo Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, Paolo e Vittorio Taviani, Brian De Palma, Quentin Tarantino, Roman Polanski a Pedro Almodóvar, di particolare rilevanza e continuità è stato il suo lavoro con Sergio Leone, Gillo Pontecorvo e Giuseppe Tornatore.
Il lavoro «applicato», svoltosi nel segno di quella che lo stesso Morricone ha definito «doppia estetica» (cioè la necessità di mediare tra le esigenze del compositore, le richieste della committenza e le aspettative del grande pubblico del cinema), ha implicato un’esperienza sfaccettata e ricchissima. Da una parte, l’obiettivo di raggiungere un ampio pubblico e di farsi capire senza rinunciare alla propria integrità etica ed estetica ha comportato ricadute di non poco conto anche sulla produzione «assoluta», ridimensionando per esempio la tentazione, spesso in agguato per il compositore d’avanguardia, di rinchiudersi in una torre d’avorio. D’altra parte, il lavoro per il cinema ha concorso ad approfondire e articolare la riflessione di Morricone sulle potenzialità espressive, evocative e drammaturgiche della musica e, in breve, sulla sua capacità di incidere in modo profondo e diretto dal punto di vista culturale, politico e sociale. In fondo la storia musicale dal 1945 a oggi dovrebbe aver insegnato, ora che possiamo approfittare di un minimo di prospettiva storica, quanto sia artificioso – oltre che controproducente – tracciare confini netti, erigere steccati e barriere tra generi, ambiti e culture. Molta della musica degli ultimi decenni si sottrae a classificazioni pur di comodo e sembra offrirsi invece a quella chiave interpretativa, certo più problematica e dunque assai meno rassicurante, che Jean Molino chiama la dialettica tra il «puro» e l’«impuro», che rimanda all’essenza intrinsecamente materica e alla sostanza altrettanto intrinsecamente antropologica della musica: in altre parole, la dialettica tra alto e basso, tra suono (o silenzio) e rumore, tra autonomia estetica e condizionamenti di mercato, tra natura assoluta e dimensione funzionale, tra controllo e casualità, tra conoscenze razionali e affetti…
In ogni caso l’eccezionale capacità di Morricone di acquisire nuovi territori espressivi nel suo lavoro per il cinema è da decenni sotto gli occhi e le orecchie di tutti. Si prenda l’immaginario sonoro del western letteralmente inventato per i film di Sergio Leone negli anni Sessanta dove, come ha scritto Sergio Miceli, Morricone ricorre a un’articolazione di tre stili diversi (un primo «arcaico» e «popolare», un secondo «rock» e «urbano» e un terzo «sinfonico»); o l’incisività straniante folgorante della colonna sonora per Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) di Elio Petri; oppure lo straordinario virtuosismo compositivo e drammaturgico delle musiche per The Mission (1986) di Roland Joffé, certo tra i suoi massimi capolavori, con le sovrapposizioni simultanee di temi dall’immediata connotazione simbolica; o ancora la vividissima intensità del gioco tra i molteplici registri (epico, lirico, elegiaco, comico e così via) della musica per C’era una volta in America (1984) di Sergio Leone. D’altro canto partiture di musica «assoluta» anche recenti come Voci dal silenzio (2002) o la Missa Papae Francisci (2013) appartengono alla musica senza aggettivi e senza qualifiche degli ultimi decenni.
Come si vede parlando di Morricone si continua a passare dall’«assoluto» all’«applicato» e viceversa in un incessante doppio movimento che coinvolge le tecniche di scrittura e le dimensioni espressive. Come pochissimi altri compositori del nostro tempo Morricone ha la capacità dei grandi artisti di raggiungere un pubblico internazionale e, cosa ancora più difficile, transgenerazionale; e come pochi altri compositori è amato dai musicisti delle più diverse culture ed estrazioni. Scorrendo l’autobiografia realizzata in forma di conversazioni con Alessandro De Rosa, Inseguendo quel suono. La mia musica, la mia vita (pubblicata nel 2016 da Mondadori e di prossima traduzione in inglese per la Oxford University Press), ci si rende conto che Morricone ha accompagnato la sua attività con una riflessione critica – e autocritica – rigorosa, talvolta sofferta, sempre lucidissima. «L’ideale di unire ciò che è apparentemente è inconciliabile ha informato in pratica tutta la mia attività – si legge a un certo punto –, ma non lo intendo come “traguardo” da raggiungere, come atto di volontà, bensì come qualcosa in cui mi immergo». L’utopico slancio di unire le diversità, di integrare ciò che è – magari soltanto all’apparenza – inconciliabile è qualcosa che va molto al di là della necessità di misurarsi con una «doppia estetica»: in fondo è la grande lezione di onestà, tolleranza e democrazia di una musica che si apre al mondo, alla società e alle sue complesse esigenze di significazione e comunicazione, di una musica che non teme di confrontarsi con l’alterità, con il trascorrere del tempo e con le profonde trasformazioni tecnologiche e culturali ma sempre salvaguardando la proprie ragioni di poetica e la propria libertà di espressione.
Auguri di cuore, Maestro, e grazie per la sua musica: per tutto ciò che essa ci ha dato e continuerà a darci.
Cesare Fertonani
photo credit: Franco Origlia
Qui la Laudatio pronunciata dal Prof. Cesare Fertonani e la Lectio Magistralis tenuta dal M° Ennio Morricone, in occasione del conferimento della Laurea magistrale honoris causa in Scienze della Musica e dello Spettacolo presso l’Università degli Studi di Milano, per aver contribuito «ad arricchire in misura determinante i nessi tra la musica e la rappresentazione e narrazione visiva del cinema».
A questi link, la #AmadeusPlaylist per ricordare il M° Ennio Morricone:
AppleMusic; Spotify.