Chi pensa di recarsi ad una comune serata d’opera, in cui ci si mette comodi sulla poltrona, si dimentica il mondo esterno e ci si prepara a vedere e guardare una storia di passione e amore, con bei costumi, scenografie spettacolari, e infine una musica commovente, confortevole, che fa da colonna sonora e accompagna l’azione indisturbata e inavvertita, uscirà deluso la sera del 16 marzo 2018 dal Teatro di Lubecca.
Qui, vent’anni dopo il suo debutto, l’opera di Salvatore Sciarrino Luci mie traditrici messa in scena dalla regista Sandra Leupold (vincitrice del Faust Preis per la sua produzione di Don Carlo del 2014) guiderà il pubblico in un viaggio alla scoperta di nuovi universi sonori.
Un’opera come laboratorio per sensibilizzare l’udito di un pubblico sempre più spettatore e meno ascoltatore. «La musica di Sciarrino osserva lo spazio tra le relazioni umane al microscopio, rendendo udibili l’incomprensibile, l’ineffabile attraverso i mezzi del silenzio e della sua zona di confine. In questa zona, dove tutto è così fragile, delicato e spesso letteralmente impercettibile, Sciarrino crea un’intensità, aumentata fino al massimo. Soltanto con grande concentrazione si possono seguire i micro-cambiamenti all’interno dei suoni – e percepirne altri mai sentiti, creati con specifiche tecniche strumentali. Per quanto sia nuova e unica la sua musica, non si tratta di creare qualcosa di mai sentito, ma di sentire in un nuovo modo.»
Per la regista svizzero-berlinese ogni dettaglio, ogni quinta della scenografia, ogni movimento scenico è a servizio della musica e dell’ascolto. Il protagonista della serata sarà il pubblico, che dovrà rizzare le orecchie e abituarsi a diversi effetti di straniamento (i cosiddetti “V-Effekte”) per capire la mancanza di libertà dei personaggi, i conflitti che hanno luogo nei singoli sguardi e piccoli movimenti, così come il significato esemplare e sperimentale dell’opera. Suoni che normalmente scambieremmo per rumori della città o della natura, o che spesso non percepiremmo neanche dato il loro volume basso, diventano improvvisamente elementi costitutivi della musica.
«Ci sono tanti modi di lavorare, appunto per aggiunta, come fanno in molti. O per approfondimento. Che è più la cosa mia.» Questa affermazione di Sciarrino, fatta alla regista in un incontro a Milano lo scorso novembre, si può trasferire sulla regia di Leupold, caratterizzata in questo caso da approfondimento ma soprattutto da omissione, “pulizia” di tutto l’innecessario: «Il canto percorre tutti gli stadi della riduzione, passando per il parlare, bisbigliare, sospirare, (da non dimenticare il respiro col naso del Servo) fino al totale ammutolire nell’ultima scena tra lui e lei nella stanza da letto. […] I personaggi recitano durante tutta la serata con lo stesso stile di recitazione generato dalla musica- molto concisi, esposti, isolati, prigionieri, maledetti, costretti, […] tutto è particolarmente ridotto, pilotato, indirizzato e modellato- e non reagiscono assolutamente alle diverse “ottiche” di ogni scena. Come se non succedesse niente.» L’ambientazione delle singole scene, così come la loro azione (e teoricamente il loro ordine), slitta in secondo piano. Ciò che conta accade nel suono. Per questo motivo perfino l’orchestra, elemento principale in questa visione focalizzata sull’esperienza acustica, verrà esplicitamente esposta e nascosta dagli occhi degli spettatori. Spettatori-ascoltatori che diventeranno egli stessi attori prima e dopo l’opera nel foyer del teatro, grazie a delle installazioni dedicate ad esplorare i confini del silenzio.
Ad affrontare la grande difficoltà di questa produzione che risulta dalla partitura di Sciarrino e dalla regia di precisione di Leupold saranno Otto Katzameier (Il Malaspina), Wioletta Hebrowska (La Malaspina), Christian Rohrbach (L’Ospite), Steffen Kubach (un Servo della casa), Caroline Nkwe (Voce dietro il sipario) e l’orchestra del Teatro di Lubecca diretti dalla bacchetta di Dietger Holm (Kapellmeister di Heidelberg).
“Sentite”-“Uditemi”-“Che?”-“Cosa?”-“Nulla”-“Niente”-“Ohimè”-“O Dio!”-“Che confusione”-“Che sconvolgimento”. Lo scambio alla fine della terza scena tra La Malaspina e L’Ospite sembra rispecchiare le domande che sorgeranno nel pubblico, una volta resosi conto che gli occhi sono traditori e che in certi casi il silenzio (e i suoni che lo rappresentano) sono più profondi di molto altro.