Di Wim Wenders ci si può fidare: successo allo Staatsoper di Berlino

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In tre parole: composto, essenziale e di buon gusto. Il debutto teatrale di Wim Wenders con “Les pêcheurs de perles” di Bizet, allo Staatsoper di Berlino è da considerarsi un successo, probabilmente anche inaspettato per il regista tedesco che all’età di 71 anni si è mosso con cautela verso un mondo a lui poco noto, ma che è stato in grado di ben comprendere. Si diffida spesso dei registi cinematografici nell’opera lirica, perché capita con frequenza di trovarsi di fronte a una Damnation de Faust con ambientazione “Germania fascista”, ad esempio, o ad allestimenti che appaiono come la brutta copia di un video di musica pop. Di Wenders, invece, in tre parole: composto, essenziale e di buon gusto, ci si può fidare.

Difficile la messa in scena di questo lavoro giovanile di Bizet, che per sua struttura correrebbe già il rischio di apparire statico o forse addirittura, senza voler esagerare, imbalsamato. Il regista tedesco però sceglie i toni, i giochi dei neri e dei grigi ( da bravo professionista e fotografo) per creare da questi i colori, senza sfarzo. Un effetto che sembra uscir fuori da una fotografia in bianco e nero, ed è proprio questo elemento a costituire l’originalità dell’allestimento. L’ambientazione è solamente una grande spiaggia, una spieggia di un’isola qualunque, dove ha luogo la vicenda con fedeltà. Dei richiami al cinema vengono restituiti solamente attraverso proiezioni sotto forma di flashback, nelle quali, accompagnate da onde del mare in tumulto, Zurga pone la collana di perle al collo della bambina a cui deve la vita, o ancora, i due protagonisti rinunciano all’amore in cambio di un’amicizia fedele. Episodi che lo spettatore tiene a mente, e che qui appaiono limpidi. Il gioco delle sfumature dei neri, nel tendaggio che si muove sulla scena, in contrasto con le vesti angeliche della sacerdotessa Léila, è il segno distintivo di Wenders che si affida al re dei colori e quindi si potrebbe dire, al non colore nel colore, per portar in scena sensazioni nuove, alle quali forse è più abituato il pubblico della pellicola rispetto a quello teatrale.

Bravo Daniel Barenboim, anch’esso al suo debutto con “Les pêcheurs de perles”, da lui mai diretta prima d’oggi. Anche Barenboim fedelissimo e degno sostenitore di quest’opera così fragile, difficile e dall’equilibrio tanto delicato. Tuttavia “gracchiante” è stato Francesco Demuro (Nadir), particolarmente fastidioso nella celebre “Mi par d’udire ancor” nella quale, oltretutto, non uno degli acuti si può dire sia pervenuto. Colma di bellissime coloriture è stata invece Olga Peretyatko-Mariotti (Léila), a lei si riconosce anche una raffinata dote scenica. Valido Gyula Orendt (Zurga), voce composta e forse non corposa quanto basta, ma sicuramente gradevole. Apprezzato anche Wolfgang Schöne (Nourabad).

Insomma se nella vita nulla avviene per caso, la disavvenuta di Wenders di qualche anno fa a Bayreuth con Parsifal, appare già come un lontano ricordo. Un ricordo che ci ricongiunge a quel Jukebox di un bar in stile liberty a San Francisco, dal quale il regista tedesco sentì per la prima volta un accenno ad un’aria di Nadir. Ed è grazie a quella disavventura e a quel Jukebox, che oggi il pubblico ha potuto dire: “bravo, bravo!”.

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