Università di Palermo: laurea honoris causa in Musicologia a Fabio Biondi

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Dal 25 al 28 settembre Fabio Biondi sarà a Palermo per una settimana ricca di appuntamenti, che si apre con il conferimento della Laurea honoris causa in Musicologia. Giovedì 27 settembre terrà un’interessante lezione/concerto all’Università di Palermo sul percorso dell’interpretazione della musica antica durante il Novecento e infine venerdi 28 alle 21.00 dirigerà la Messa in do minore K427 di Mozart nella Sala Grande del Teatro Massimo. Abbiamo raggiunto telefonicamente il Maestro che in questi giorni si trova a Rovereto in occasione della Settimana Mozartiana 2018.

La prossima settimana lei sarà a Palermo per una serie di appuntamenti che culmineranno venerdì 28 con l’esecuzione della Messa in do minore K427 di Mozart al Teatro Massimo, ma il suo soggiorno palermitano si aprirà martedì 25 allo Steri con la cerimonia in cui le sarà conferita la Laurea honoris causa in Musicologia . C’è molta attesa per questo evento, come si sta preparando emotivamente?

«Sono molto contento di tornare nella mia terra; ho avuto un’infanzia molto felice e molto condivisa a casa mia, a Palermo. Mia madre è sempre stata un po’ corrucciata perché il cammino musicale non mi aveva dato la possibilità di avere una laurea e provo tanta tenerezza perché sarebbe uno dei momenti più belli della sua vita, e certo questo è molto emozionante. Ho lasciato la città da piccolo, pur rimanendole attaccatissimo e, a parte tornarci durante i periodi di vacanza, Palermo mi manca. Gli anni professionali trascorsi con rarissime puntate palermitane mi hanno sempre dato un po’ di tristezza, mi piace essere in questa città e sentirmi parte di essa, la laurea è quindi il coronamento di un legame oggi ancora più forte e duraturo. Si dice che i siciliani tornano sempre nel posto in cui sono nati e questa per me è una verità».

Torna a Palermo tra l’altro in un momento particolare: proprio di recente il MIUR ha approvato il nuovo Statuto che cambia l’intitolazione del Conservatorio di Palermo da Vincenzo Bellini ad Alessandro Scarlatti, una scelta che ha incontrato grande favore ma ha anche sollevato qualche polemica. Lei ha dato un forte contributo alla riscoperta di tante opere, serenate e oratori di Alessandro Scarlatti e questo evento è una felice coincidenza.

«È una notizia che mi dà gioia. La musica, come la vita, è fatta di dettagli su cui è bello concentrarsi. A me sembra un atto dovuto e mi fanno un po’ sorridere le polemiche anche perché, io che negli ultimi anni sto facendo tantissimo romanticismo, non vedo perché ci si debba sentire defraudati dal fatto che ci sia il nome di un compositore barocco come riferimento al Conservatorio. In fondo credo che la grande tradizione di Palermo rimanga e non abbia niente a che fare con il nome del Conservatorio, mi sembra un atto di giustizia invece, anche perché Alessandro Scarlatti, alla luce di quello che io ho visto durante la mia carriera, resta un compositore dalla fortuna contraddittoria, non ancora sufficientemente eseguito, come tutti gli altri Scarlatti del resto. Provo grande tenerezza perché penso anche a tutto il lavoro straordinario che ha fatto Roberto Pagano e questo per me è molto importante perché lui è stato tra i più grandi a fomentare la ricerca su Alessandro Scarlatti, io nel mio piccolo ho cercato di farlo come interprete; questa nuova intitolazione mi sembra un grande momento di orgoglio palermitano, direi che invece è fatto perché tutti lo condividano e tutti ne siano contenti. È una bellissima notizia!».

Lei ha ricordato Roberto Pagano come promotore della ricerca su Scarlatti; ma in generale si parla da anni del fenomeno della rinascita della musica barocca. Quanto ha influito l’interpretazione e quanto l’editoria e il mercato discografico nell’orientamento musicale dei giovani?

«Questa rivoluzione, che ha portato naturalmente una maniera nuova di suonare, ha influito enormemente, perché ha creato un sistema di mercato molto importante dagli aspetti anche a volte superflui e negativi. La “Reinassance” della musica antica ha fondamentalmente aperto gli occhi e le orecchie un po’ a tutti gli interpreti nel mondo intero; è stata una rivoluzione che è servita a rallentare, a pensare e compiere un atto differente nei confronti dell’interpretazione che era anche un atto di giustizia, una giustizia sociologica, una conoscenza di linguaggio che ha cambiato la mentalità dell’interprete in generale. Si è creato un sistema di pensiero nel quale l’interprete ha finalmente cominciato a porsi delle domande di carattere linguistico. Oggi assistiamo a dei fenomeni che sono straordinari: le orchestre più grandi del mondo, come la Chicago Symphony Orchestra, si pongono un problema interpretativo nei confronti di certi autori e ciò significa che la filologia a un certo punto ha vinto la sua battaglia, che era quella della coscienza. La verità è che è cambiato l’interprete e questa è una cosa straordinaria: oggi è bello che un pianista che suona su uno Steinway abbia più coscienza nel farci sentire Bach al pianoforte di quanta ne avesse un interprete di quarant’anni fa. L’industria del disco ha aiutato in questo senso sicuramente perché ha creato tra l’altro un’attenzione molto grande nei confronti di un repertorio che prima non era tanto suonato. Io sottolineo sempre che il repertorio della musica antica, il repertorio barocco, offre una presenza giovanile di interpreti che molto spesso il repertorio più tardo non ha. Abbiamo visto un fenomeno nel quale le giovani generazioni si sono avvicinate alla “musica antica” con più entusiasmo rispetto alla musica di altro periodo e ci sono delle ragioni secondo me legate all’ornamentazione, alla possibilità di poter variare, giocare e tutto questo assomiglia anche al jazz. Senz’altro i giovani si divertono con la musica antica perché l’aspetto improvvisativo, la mancanza di una certa formalità li aiuta ad avvicinarsi a questo repertorio».

Accennava a degli aspetti superflui e negativi, quali?

«Purtroppo sono rimasti per strada tantissimi dettagli sui quali ci siamo un po’ tirati i capelli uno con l’altro, uno fra questi il discorso dell’organologia, degli strumenti d’epoca su cui s’è fatta molta confusione e non si è scavato profondamente. Lo strumento è diventato uno scudo d’appartenenza che spesso ha creato polemiche secondo me un po’ sterili. La filologia è stata un refugium peccatorum, ha anche creato una generazione di artisti non abbastanza valenti che poi sono state le ragioni per cui il mondo moderno ci ha guardato e sbeffeggiato per molti anni; oggi per fortuna il livello si è molto alzato ed abbiamo passato anche questa fase, ma c’è molto ancora da fare. La storia della musica è spesso trattata in maniera un po’ ingiusta: non conosciamo i contemporanei di Rossini, non sappiamo chi è Mayr, non sappiamo chi è Pacini, non sappiamo chi erano gli antagonisti di Verdi. Credo che la musica antica in questo senso stia aiutando ad aprire le prospettive di ricerca musicale a tutto campo, perché la storia della musica ci viene raccontata in maniera erronea: sembra che ci siano dei geni e il resto siano delle scimmie che mangiano le banane sugli alberi (ride)».

Lei pone l’accento su come la storia della musica sia trattata in modo ingiusto e viene naturale soffermarsi su quanto oggi, più che mai, le discipline musicali e artistiche in generale siano private di quel ruolo fondamentale che hanno nella crescita culturale e nello sviluppo della sensibilità dei giovani. Che ruolo hanno le istituzioni e i teatri?

«Io penso che sia una parte importante dell’educazione e andrebbe fomentata; credo però ci siano altri aspetti drammatici e trovo che il grande responsabile di tutto questo siano proprio le istituzioni stesse, nel senso che il grande problema è che la musica classica ha sempre raccolto un  pubblico di nicchia. Le istituzioni hanno cercato di trasformare la musica classica  in un mercato, dove si vende l’immagine. Tutto ciò che è esteriore fomenta un acquisto più massiccio e crea quindi più profitti, ma la cultura non è fatta per i profitti, la cultura è diffusione. Succede quindi che a pagarne sia la programmazione alternativa; cioè promuovere un’opera di Paër o di Pacini diventa difficile perché sono le stesse istituzioni che non mi permettono di farlo e lo vediamo molto nei teatri oggi; si ha paura che il pubblico non riempia le sale e questa è una cosa terribile e uno dei fenomeni più gravi. Oggi si ha bisogno dello scoop, se non si suonano le Quattro Stagioni di Vivaldi non si riempie la sala e se si fa un oratorio di Scarlatti si ha paura di avere una sala mezza vuota. Io credo che il grande errore di tutte le istituzioni musicali, dei teatri d’opera e delle sale da concerto sia di avere paura di una scarsa affluenza, che invece non c’è mai stata. La vera problematica oggi non è riempire le sale, ma è dare al pubblico delle cose intelligenti, assumersi la responsabilità di essere dei “duttori” di cultura e conoscenza e non trincerarsi dietro la paura che questa debba necessariamente essere sempre così popolare; in questo senso trovo però che Palermo abbia fatto sempre eccezione».

In questo hanno un ruolo anche gli interpreti?

«Certamente. Nelle case discografiche la cosa che si promuove è quella più votata all’aspetto esteriore e, ahimè, drammaticamente a quello dell’interprete. Non ci dimentichiamo che gli interpreti devono fare atto di sottomissione nei confronti degli autori, noi non siamo autori, siamo interpreti quindi servi della musica. In una copertina il nome di Verdi non può apparire più piccolo del nome di quello che lo sta interpretando perché si fa un’operazione nei confronti del pubblico molto disturbante, cioè si pensa che il disco abbia importanza perché la musica è messa a disposizione dell’interprete e della sua bravura, invece è la nostra bravura che deve mettersi al servizio della musica; è una maniera molto pericolosa di vedere le cose, che nella musica classica non dovrebbe accadere e crea offuscamento degli obiettivi».

Lei ha lavorato con numerose orchestre non specializzate nel repertorio barocco. Tra le orchestre italiane, spesso accusate di atrofizzazione, e le altre con cui ha lavorato fuori dall’Italia sente una differenza di predisposizione verso il repertorio barocco? Quali problematiche deve affrontare quando si trova a dover lavorare con musicisti che non hanno esperienza con la prassi esecutiva antica?

«Devo dire che non ci sono tante differenze tra le orchestre italiane e quelle fuori dall’Italia e lo dico in maniera orgogliosa; credo che noi abbiamo sottovalutato le capacità che le nostre orchestre hanno, non solo di suonare ma anche di piegarsi con curiosità a queste esperienze. Ho trovato molto spesso nelle orchestre italiane una capacità e anche uno stupore quasi infantile nell’apprendere e nel capire. La sclerotizzazione delle orchestre italiane è una falsità che è stata costruita apposta per poi fare andare il mercato in una certa maniera; le orchestre italiane non sono sclerotiche, hanno voglia di imparare nel momento in cui però qualcuno si presenta e dà i mezzi per imparare; le orchestre italiane purtroppo per anni hanno sopportato gente che non sapeva cosa dire. Gli orchestrali italiani  hanno bisogno di essere rispettati e soprattutto hanno bisogno di chi si rivolga a loro con idee precise; io ho cercato sempre di farlo, spesso dando anche degli esempi con lo strumento e ho sempre avuto reazioni meravigliose. Ci sarà sempre qualcuno che non è d’accordo, ma non ho mai notato nessuna resistenza e anche nelle orchestre che mi erano state presentate come le più recalcitranti ho notato una forte predisposizione e soprattutto la possibilità di raggiungere livelli molto buoni di esecuzione. Sono molto positivo in questo e sono convinto che si possa fare tanto e anche bene».

Adesso torna a dirigere l’Orchestra del Teatro Massimo di Palermo dopo l’esperienza del Messiah di Händel nel 2016; una collaborazione che continua.

«Si, è una relazione che è nata bene proprio con il Messiah, che ha dato la possibilità di iniziare un discorso linguistico nuovo e sono molto ottimista. È chiaro che la formazione linguistica di un’orchestra richieda tempo ed è la frequentazione che permette all’orchestra di evolversi. A volte i tempi sono insufficienti per penetrare a fondo un’opera, ma la scelta del Teatro Massimo è stata intelligente con la Messa in do minore di Mozart che è un’opera che amo da sempre e che conosco molto bene. La compagnia di cantanti è meravigliosa e a me molto nota, ho lavorato spesso con Desirée Rancatore, sono artisti che conosco e l’orchestra ha dimostrato in occasione del Messiah il grado di attenzione necessario; tutto concorre a far pensare che sarà un appuntamento felice e ne sono convinto».

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