La nuova produzione bolognese del Barbiere di Siviglia conquista trionfalmente il pubblico del Comunale nel segno della semplicità. Rifuggendo qualsivoglia interpretazione forzata e “radicale”, Federico Grazzini propone uno spettacolo divertente e a dir poco scanzonato, i cui punti di forza si rintracciano in una comicità diretta – sebbene a volte eccessivamente caricata – e nell’attenzione ai dettagli, rivolta tanto ai singoli gesti, quanto ai versi del libretto, giustificati sempre scenicamente e spesso con risvolti nuovi e interessanti: il tutto, perciò, fila liscio con sorprendente naturalezza.
L’elemento meta-teatrale, anticipato dalle note di regia, è più che azzeccato e finalmente non invasivo, esternato nella figura di un Figaro direttore di scena – tant’è che finanche la musica rossiniana suggerisce questo lato del factotum, perlomeno nel largo concertato del primo finale, in cui Figaro commenta “dall’esterno” l’ilarità della situazione.
Altro punto di forza dell’allestimento è la perfetta caratterizzazione dei personaggi, costruita in particolar modo nei brani solistici; magistrale in tal senso è la cavatina di Rosina, la cui realizzazione scenica mostra tutta la sua intraprendenza e risolutezza: nel momento in cui i versi cominciano ad infervorarsi («Ma se mi toccano / qua nel mio debole») la donna dapprima sfigura con un pennarello il volto di un busto che raffigura Bartolo, dopodiché, sulla ripresa del motivo, gli punta contro uno dei suoi fucili da caccia, concludendo infine l’aria con un colpo del manico che stacca di netto la testa del marmoreo tutore. Anche l’aria di Berta, «Il vecchiotto cerca moglie», presenta dei felici espedienti che permettono di esplorare tutte le sfumature di un personaggio seppur secondario: dalla felicità nel ritrovarsi alfine sola in stanza ad accompagnare il proprio canto al pianoforte, alla repulsione verso il maggiordomo Ambrogio, alla gioiosa accettazione di un flirt con quest’ultimo, fino alla malinconica rassegnazione alla solitudine dovuta a un corpo non più giovane. Degno di nota anche il finale primo che si presenta come un tripudio dell’assurdo: una vera e propria visualizzazione della follia drammatico-musicale rossiniana, creata tramite soluzioni allucinate al limite dell’onirico che culminano in una gigantesca palla da demolizione che si abbatte sui personaggi, quasi burattini in balìa del caos.
Grandiose si presentano le scene di Manuela Gasperoni; obbligo di menzione va, in particolare, al primo cambio di scena, tanto semplice quanto geniale: durante l’introduzione della cavatina di Rosina, non appena Bartolo si allontana, la giovane tenta di uscire di casa, ma, nel momento in cui si richiude la porta alle spalle, il pannello che raffigura l’esterno della casa ruota su sé stesso, divenendo l’interno dell’abitazione; altri due pannelli laterali vanno a completare la scena e, nel giro di qualche secondo, Rosina si ritrova nuovamente intrappolata nella sua camera, impossibilitata a fuggire.
I costumi di Stefania Scaraggi non soltanto tratteggiano un Ottocento fantasioso e sgargiante, ma contribuiscono anch’essi alla caratterizzazione dei personaggi, in particolare quello della protagonista femminile, con un drappeggio giallo e nero che la raffigura quasi come una vespa pronta a pungere all’occasione. Le luci di Daniele Naldi evidenziano i momenti salienti dello spettacolo, specialmente il temporale, che diventa la realizzazione scenico-musicale della disperazione e della rabbia di Rosina.
Precisa, sicura e dalle timbriche dense si è dimostrata la direzione musicale di Federico Santi, seppur non estremamente briosa e non sempre al passo con i cantanti. Questi ultimi hanno dato tutti prova di incredibili doti attoriali, oltreché vocali: Antonino Siragusa tratteggia un Almaviva deciso e sicuro di sé, mentre Marco Filippo Romano delinea un Bartolo potente e scorbutico ed entrambi si mostrano particolarmente affiatati in scena sul principio del finale primo; Cecilia Molinari veste i panni di una vispa e grintosa Rosina, ed eccezionale si rivela la presenza scenica di Roberto De Candia nel ruolo di Figaro, accompagnata da un bel timbro nitido e profondo. Inquietante e calzante l’interpretazione di Andrea Concetti nella parte di un viscido Basilio e ben presente in scena è stata Laura Chierici, nelle vesti di una Berta incisiva. Buona prova anche per Nicolò Ceriani (Fiorello), Sandro Pucci (un ufficiale) e Massimiliano Mastroeni (Ambrogio). Come sempre molto preparato anche il coro del Comunale diretto da Alberto Malazzi.
Dulcis in fundo, l’allestimento propone l’esecuzione di «Cessa di più resistere», la temibile aria conclusiva di Almaviva, presentata invero con orgoglio dal “direttore di scena” Figaro, che porta al centro del palco il nobile; seppur non risulta impeccabile l’esecuzione, lodevole è tuttavia la decisione di includere il brano, troppo spesso soppresso da tanti allestimenti e che invece è fondamentale sul piano drammaturgico, in quanto realizzazione musicale del trionfo del Conte, che dirime una volta e per tutte il dubbio su chi sia il reale vincitore della vicenda. Al termine della serata gli applausi sono calorosi e meritatissimi.
Immagine di copertina Ph. Rocco Casaluci