Certamente quello di Ildebrando D’Arcangelo è un nome che non necessita di grandi presentazioni. Basso cantabile e specialista mozartiano dell’ultimo ventennio, la sua voce già da qualche tempo si è avvicinata all’approccio verdiano. Dopo l’Attila del 2016 al Teatro Comunale di Bologna, nel marzo del 2018 debutterà in Filippo II di Spagna nel “Don Carlo”, al Deustche Oper di Berlino.
Come vive questo momento?
Quindici anni fa se mi avessero detto di fare Filippo II non avrei neanche risposto, oggi invece ho deciso di compiere questo passo perché inizio a sentirlo. Il mio maestro mi diceva sempre che nel canto il problema non sono le note, ma la maturità, anche culturale. Una maturità che consiste nell’aver assorbito il palcoscenico talmente tanto che anche la voce e il linguaggio del corpo, ti portano ad avere una familiarità con certi ruoli. Il mio approccio con Verdi è appena iniziato, ma riscontro che in tutto quello che ho fatto in venticinque anni con Mozart, oggi con Verdi ho una risposta diversa. Ogni tanto penso alle parole di mia madre e di mio padre, quando dicevano: «la tua voce in Verdi ha una verità che in Mozart purtroppo non esce fuori» è una constatazione che devo ammettere. Certamente però ci sto ancora lavorando e devo entrare nello stile verdiano e porgere la frase alla “Verdi maniera”.
Mozart però resta sempre il suo compositore preferito, quello degli esordi e che ha segnato la sua carriera…
Certamente sì, è il mio compositore preferito, ed è quello che mi ha permesso di rappresentare ciò che è stato il mio bagaglio culturale fino ad oggi. Grazie a Mozart ho cominciato a cantare. La prima opera che ho sentito, e che mi fece balenare in mente l’idea del canto, fu proprio il Don Giovanni. All’epoca avevo sedici anni, frequentavo un coro polifonico diretto dal mio padrino di battesimo. Lui pensò bene di farci tentare un concorso e ci mandò tutti da Monica Bacelli con l’intento di acquisire un’idea sull’impostazione vocale, poiché non era un coro di cantanti professionisti. Così andai da lei, se non sbaglio cantai l’Ave Verum di Mozart, ricordo che lei sbarrò immediatamente gli occhi, dicendomi: «hai sedici anni, è ancora presto per capire come si svilupperà la tua voce, però sento che hai già una dote particolare. Perché non fai il cantante lirico da grande?». Fu proprio la Bacelli a farmi ascoltare per la prima volta il Don Giovanni, con libretto alla mano, nella versione diretta da Karl Böhm con Dietrich Fischer-Dieskau ed Ezio Flagello. Io ne rimasi folgorato, me ne innamorai e da quel momento ebbe inizio tutto l’amore per la lirica e per Mozart.
Quali sono stati i suoi punti di riferimento vocali?
Siepi e Ramey. Il primo per la bellezza vocale e per la naturalezza nel porgere le frasi, come se non esistesse nessun tipo di sforzo dalle note gravi a quelle acute. Il secondo sul lato tecnico di precisione e agilità.
Prima del canto però, su consiglio di suo padre, lo studio del pianoforte…
Mio padre era un organista e pertanto voleva che i suoi figli avessero una qualche infarinatura musicale. Così, fino all’eta di tredici anni, io studiai il pianoforte, in quanto secondo lui questo strumento mi avrebbe fornito delle basi valide per la conoscenza del linguaggio musicale. Studiai quindi a ritmi serrati, otto ore al giorno. Alla soglia dei tredici anni però, decisi di abbandonare, così mio padre ripose i libri dentro un armadio e ovviamente anche il pianoforte restò chiuso. Passò l’estate, e io vedevo il pianoforte lì, davanti a me nella sala, e c’era qualcosa che mi mancava. Insomma, per farla breve, il distacco durò due mesi. Ripresi a studiare.
Con la sua voce ha realizzato forse il sogno di suo padre?
Il sogno di mio padre da giovane era quello di viaggiare e intraprendere una carriera concertistica, cosa che non potè mai fare per dedicarsi alla famiglia. A mio padre piaceva l’opera lirica, lui adorava Corelli e squagliava i dischi a forza di sentirlo. Pertanto credo che oggi sia veramente contento del percorso che ho scelto. Ho realizzato il suo sogno, quello di viaggiare e girare il mondo da musicista.
L’amore per il canto passa non solo per Mozart ma anche per l’Austria…
Da ragazzino ero talmente innamorato di Mozart che dicevo di voler sposare una ragazza salisburghese, ovviamente si trattò di un sogno giovanile che mai fu realizzato. Però la mia carriera ha avuto inizio in Austria, da giovanissimo con Bartolo ne Le Nozze di Figaro, sotto la direzione di Claudio Abbado, il quale mi aveva scelto e voleva fortemente che io interpretassi quel ruolo, nonostante Holender non mi volesse perché sosteneva che io fossi troppo giovane. In realtà con Holender c’erano stati dei precedenti, mi aveva selezionato qualche anno prima come cantante fisso a Vienna, io rifiutai perché volevo esplorare il mondo, quindi con buone probabilità lui rimase un po’ risentito di questa mia scelta. Al mio arrivo in teatro Abbado mi disse di andare nella make-up room, io andai e ricordo che mi spruzzarono una vernice bianca sui capelli, poi ci fu l’incontro con Holender. Ecco ritengo che invecchiarmi non sia stato facile, però in qualche modo ci riuscirono e andò benissimo.
Che ricordo ha di Claudio Abbado?
Di un bel rapporto. Sin dal primo momento non voleva che io gli dessi del lei e mi disse: «Io mi chiamo Claudio». Feci una prima audizione con lui credo a Bolzano, proprio per quello stesso Bartolo, e da quel momento mi prese per tanti altri ruoli. Anche se molto del mio lavoro su Mozart l’ho fatto con il maestro Muti, io devo moltissimo ad entrambi.
Con il passare degli anni la sua voce sta certamente attraversando un cambiamento, ma c’è un’accezione che lei non gradisce. Ossia quando le danno del basso baritono…
Non gradisco affatto questa definizione, io mi reputo un basso cantabile, non mi è parso di aver mai letto in nessuno spartito la definizione di basso baritono. Il basso è di tre tipi: cantabile, brillante e profondo. Il fatto che uno prenda alcuni acuti non vuol dire che sia baritono, ad esempio la parte del Conte ne Le Nozze di Figaro viaggia sicuramente verso un repertorio più baritonale, ma questo non vuol dire che lo sia. Io non potrei mai cantare Figaro nel Barbiere di Siviglia!
Che rapporto ha con i registi contemporanei e con le “attuali” regie?
Spesso vedo i teatri vuoti, pertanto credo che alcune regie non funzionino. Io mi metto sempre nei panni di un giovane che si reca a vedere un’opera per la prima volta e vede, ad esempio nel Don Giovanni, al posto della finestra una barca o chissà cos’altro… Credo pertanto che bisogna rispettare prima di tutto il libretto e il musicista, inventarsi tutto di sana pianta non va bene. Ci sono regie intelligenti e regie meno intelligenti.
Che si fa quando una regia non è abbastanza intelligente?
Quando devo interpretare un’idea registica io ci devo credere, molte volte però è arduo perché sono discorsi filosofici talmente complessi che risulta molto difficile metterli in pratica. Però devo dire che spesso è possibile trovare un compromesso con il regista. Ad esempio nel mio ultimo Conte ne Le Nozze di Figaro con Flimm, io mi sono permesso di proporre a lui un Conte un po’ meno rabbioso e più comico, lui ha accettato la mia idea e la rappresentazione ha avuto successo.
Cosa consiglia ai giovani cantanti?
Di seguire il cuore e la passione, con il massimo della devozione e amore, il resto lo fa la vita. Fare giornalmente quello che si ama, ascoltarsi molto perché questo mestiere è fatto del conoscersi, del capire i propri limiti, le proprie paure, e del render belli anche i propri limiti.