Accorrono in tanti per assistere ai suoi concerti. E anche se a lui non piace affatto parlare delle sua popolarità raggiunta in seguito al Sanremo del 2016, con le sue trascrizioni è riuscito ad avvicinare il grande pubblico alla figura di Bach o Tchaikovsky. Ezio Bosso, al Teatro di Verdura di Palermo, al concerto organizzato dagli Amici della musica, ha riscosso un successo più che meritato, validissima dopo tutto è anche quella che lui chiama scherzando la sua “band”, ossia la Stradivari Festival Chamber Orchestra.
Lei nel parlare della sua Stradivari Festival Chamber Orchestra e dei suoi componenti ha detto: «è composta da tanti amici». È un’unione che ha radici lontane quindi?
«È nata dalla mia lunga carriera in orchestra: studio insieme, specializzazione insieme, tante, tante stanze d’albergo condivise, tournée gomito a gomito. Conosco così tanti musicisti oggi al lavoro nelle orchestre di tutto il mondo, che ovunque vada trovo sempre qualcuno con cui ho condiviso un pezzo della mia vita. Per questo sono anche un direttore diverso dagli altri: lunghi anni in orchestra ti rendono sensibile e consapevole delle esigenze dei musicisti, di un gesto che ti fa capire che quel braccio è stanco, dei problemi e delle opportunità di tutti. Tornando alla Stradivari: ho semplicemente ritrovato un gruppo di eccellenti musicisti e ottimi amici con una gran voglia di suonare insieme e così è nato tutto. Comunque non è poi così particolare: è un ensemble cameristico di 22 elementi di base scelti fra i migliori cameristi italiani. Ma già da settembre presenteremo un organico ben più ampio per ampliare il repertorio e arrivare così fino all’amatissimo Beethoven. Il primo appuntamento con organico ampliato sarà a Trento con la violinista Anna Tifu».
Uno dei suoi obiettivi è quello di estendere la conoscenza delle musiche dei grandi compositori del passato ad un pubblico “altro”. Da Bach ai più celebri compositori russi, tra cui Tchaikovsky…
«Il mio scopo è quello di portare la grande musica ad un pubblico più ampio, che non deve necessariamente essere impreparato, ma semplicemente coincidere con quello che va alle grandi mostre, che riempie i musei, le giornate Fai o semplicemente l’editoria libraria e che è ancora oggi infinitamente più ampio di quello delle sale da concerto: questo pubblico cerca arte, bellezza, sapere, ma fa fatica ad arrivare alla musica per mille ragioni che sarebbe lunghissimo esporre, molte di queste hanno a che fare con forme di timidezza culturale o sociale che, se non smantellate, saranno la morte di tutto ciò che noi amiamo: la musica nella quale ci identifichiamo. Se poi in questo processo qualche titolo finisce in classifica pop è del tutto casuale e dettato solo da algoritmi e numeri».
Bach è un compositore che si legge spesso nei programmi di sala dei suoi concerti. C’è un legame particolare?
«Bach è il grande padre di ogni musicista, in lui c’è già tutto, tra noi musicisti si usa dire “Studia che Bach ti guarda!”. È imprescindibile, un riferimento costante».
A proposito di trascrizioni, c’è un suo Bach Siloti Bosso BWV 855A che incuriosisce …
«Interessante no? Una delle cose meno conosciute anche dal pubblico tradizionale della classica diventa un riferimento per quel pubblico di cui parlavo poco fa. Quindi direi che non siamo senza speranza, dobbiamo solo trovare la strada giusta. Io poi sempre più sento il termine ‘trascrizione’ come quello fondante per noi musicisti: la musica c’è sempre stata, nello stormire delle fronde, nel canto degli uccelli, nel ritmo delle onde che si frangono. L’uomo ha solo sentito la necessità di tra-scriverla per poter riprodurre il benessere che da essa gli derivava. Questo concetto che ripeto spesso, probabilmente rende il pubblico più attento ad ogni brano che sia esplicitamente trascrizione. È un cammino di approfondimento mio e loro».
Oggi Ezio Bosso è un direttore d’orchestra di fama indiscussa, ma tutto è iniziato con un ragazzo che studiava contrabbasso…
«Inizialmente il contrabbasso fu una scelta obbligata: amavo la musica e volevo farla, ma la carriera di pianista era economicamente non sostenibile per una famiglia di estrazione operaia come la mia, quindi scelsi uno strumento che mi avrebbe dato uno sbocco lavorativo più concreto e mi dedicai ad esso per amore della musica in sé».
Beethoven compose pur essendo sordo. Lei spesso ha ricordato il come la musica sia quel qualcosa in più che ti permette di andare oltre, nonostante le limitazioni della vita.
«Io sono stato e sono oggi grato alla musica, sempre. Spesso si dimentica che tanti direttori d’orchestra muoiono lavorando, nessuno va tecnicamente in pensione. La gioia profonda, l’appagamento, il senso di pienezza e compiutezza dell’essere che essa ti porta, rende impossibile rinunciare, anche quando le forze scemano e salire sul podio diventa uno sforzo titanico».
Lei una volta ha detto che la musica è stata una scusa per studiare quello che non aveva voglia di studiare, ci spieghi…
«Per capire davvero un brano musicale bisogna studiare altro, molto altro: la vita del compositore, le sue intenzioni d’arte, il milieu in cui si muoveva, la prassi musicale del suo tempo, il pubblico del suo tempo, l’acustica e il suo variare nel corso del tempo a seconda dei luoghi, delle destinazioni d’uso dei medesimi, le abitudini del pubblico in sala, la fonia, perché il suono è profondamente variato da mille componenti e non puoi prescindere da esso, l’anatomia, tanta scienza che non avrei mai pensato di dover affrontare per fare davvero bene la musica. Spesso si crede che basti studio ed esercizio e invece bisogna tuffarsi ancora più in profondità ed indagare tutte le possibili connessioni, altrimenti, nonostante l’impegno, si rischia un approccio ancora superficiale».