Il sogno di un’eterna adolescente: Turandot secondo Ricci/Forte

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In questa 53° stagione dedicata all’Oriente, il Macerata Opera Festival forse non poteva prescindere dal proporre l’ultimo, incompiuto, capolavoro pucciniano: il dramma lirico “Turandot”, coproduzione con il Teatro Nazionale Croato di Zagabria, andato in scena il 4 agosto 2017.

Contrariamente alle aspettative del pubblico tradizionalista, nell’allestimento concepito da Gianni Forte e dal regista Stefano Ricci, «l’inverosimile umanità del fiabesco» del soggetto (tratto dalla favola teatrale settecentesca di Carlo Gozzi) e il gusto per la chinoiserie che traspare dall’immaginaria Pechino, luogo dell’azione del dramma, composto fra il 1920 e il 1924, hanno ceduto il posto al mondo interiore cristallizzato di una donna contemporanea che rifiuta di crescere.

La crudele protagonista, interpretata da France Dariz  (chiamata a sostituire l’infortunata Iréne Theorin, ma dimostratasi all’altezza del difficile ruolo di soprano lirico spinto) si aggirava sul palco come una reginetta del ballo, circondata dal popolo e da misteriose presenze maschili, personificazioni del desiderio di controllo assoluto su tutto ciò che è vivente e, per questo, imprigionato nelle grandi teche trasparenti, concepite e sapientemente illuminate da Nicolas Bovery: dai bambini giustiziati (al posto del pretendente previsto nel libretto), alle piante che muoiono dopo risoluzione degli enigmi, fino al grande orso polare, a dorso del quale la glaciale principessa farà la sua circense entrata ufficiale sul palco, alla fine dell’atto I.

Girando intorno alla capricciosa Turandot e alla sua sindrome di Peter Pan al femminile, per cui anche il leggero strizzare l’occhio alla contemporaneità e al tema dell’oppressione emerge come riflesso di un sogno infantile infranto e del traumatico risveglio alla realtà del mondo, da affrontare senza paura (come ricordato nei cartelli imbracciati dal coro nel finale), lo spettacolo ha proposto un florilegio di simbologie e riferimenti iconografici, fra i più disparati. Tutto ciò ai fini di una lettura “psicoanalitica”, visivamente molto accattivante, anche per la catalizzante presenza fisica dei mimi, per la cura movimenti scenici (Marta Bevilacqua) e per i singolari costumi di Gianluca Sbicca, seppure non particolarmente originale.

In netta contrapposizione alla principessa di ghiaccio, la dolcissima Liù è apparsa come una sposa tarantiniana, in abito bianco e con pistola alla mano: a dar vita all’idealizzato personaggio pucciniano è stata la dolce figura e la bella voce, forse poco adatta al plein air, soprattutto nel registro medio-basso, del soprano lirico Davinia Rodriguez, comunque commovente e intensa nell’affrontare, nell’atto III (“Tanto amore segreto” e “Tu che di gel sei cinta”) la gelida Turandot, dalla quale, in virtù di una “licenza” registica, viene uccisa. Il tenore Rudy Park, con la sua imponente voce, ha incarnato un principe Calaf un po’ ingessato nelle scene d’amore, ma convincente e applauditissimo per l’aria celeberrima “Nessun dorma“, mentre meno efficace è risultata la nota di colore cinese, affidata dallo stesso Puccini, al trio dei ministri Ping, Pang e Pong (rispettivamente interpretati da Andrea Porta, Gregory Bonfatti e Marcello Nardis).

A completare il cast, accanto a Stefano Pisani nel ruolo di Altoum, di Nicola Ebau in quello del Mandarino e Andrea Cutrini in quello del Principe di Persia, è da ricordare il Timur di Alessandro Spina, intenso nel compianto funebre della giovane schiava, che è anche il vero epitaffio di Puccini della sua concezione dell’opera.

Fondamentali nella loro presenza scenica e nella resa musicale delle grandi scene di massa, si sono rivelati ancora una volta il Coro Lirico Marchigiano “Vincenzo Bellini”, affidato alla direzione di Carlo Morganti e il Coro di voci bianche Pueri Cantores “D. Zamberletti” (diretto da Gian Luca Paolucci).

La FORM (Fondazione Orchestra Regionale delle Marche), insieme al Complesso di palcoscenico Banda “Salvadei”, sotto la guida di Pier Giorgio Morandi, ha affrontato la multiforme partitura pucciniana restituendone con misura il vago esotismo e la modernità, sostanzialmente fondata su una solida impalcatura tematica e sinfonica.

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