Quando Schumann ritrova a casa del fratello di Franz Schubert, Ferdinand, la partitura manoscritta della Sinfonia in do maggiore D 944 (“La Grande”), rimane estasiato dalla visionarietà di questo estremo capolavoro, elaborato tra il 1825 e il 1828, anno della morte del compositore viennese.
Nell’articolo apparso nella Zeitschrift fiir Musik, in apertura dell’annata 1840, il celebre critico afferma con lungimiranza: «Chi non conosce la Sinfonia in Do maggiore conosce ben poco di Schubert; e questa lode può sembrare appena credibile se si pensa a tutto quello che Schubert ha già donato all’arte». L’impressione è folgorante («Questa Sinfonia ha dunque agito su di noi come nessuna ancora, dopo quella di Beethoven»), tanto da suggerire di affidarne l’esecuzione al carissimo amico Felix Mendelssohn, il quale, altrettanto entusiasta, la dirigerà a Lipsia e a Londra.
Non sempre la critica e gli stessi esecutori ne apprezzeranno da subito il sommo valore, ma la via aperta da Schubert rappresenta un modello per il sinfonismo dello stesso Schumann, oltre che per quello di Brahms, Bruckner e Mahler.
Un percorso che non prosegue sulla strada indicata dalla Nona di Beethoven (nonostante le citazioni dell’Inno alla Gioia racchiuse nell’Allegro vivace conclusivo) ma che schiude una grandiosità intrisa di elegia e nostalgica tenerezza, approfondendo l’intuizione del “tempo esteso” – come la definirà Adorno – indagata in alcune delle ultime creazioni di Beethoven, artista venerato e modello supremo. Veniamo così trasportati in un tempo non più lineare ma circolare, sincronico, estatico e spiraliforme, evocato grazie a una tecnica compositiva magistrale che alle accensioni drammatiche e allo sviluppo tematico sostituisce accostamenti e ripetizioni motiviche. Si ergono così poco per volta ampie strutture stagliate su arcate dalla “lunghezza celestiale”, «espressione della vita in tutte le sue fibre e sfumature più sottili» (Schumann).
Forse traendo spunto da queste osservazioni schumanniane Marco Angius, lo scorso 3 agosto, ha pensato di affiancare l’esecuzione de “La Grande”, realizzata con l’Orchestra di Padova e del Veneto, a suggestive proiezioni di immagini dell’Universo e dei pianeti riprese dai potenti telescopi della ESA, ESO e NASA, curate dall’INAF, l’Osservatorio Astronomico di Padova che celebra i duecentocinquanta anni di attività.
L’intento dei curatori, Antonello Satta e Simone Zaggia dell’INAF e Rossella Spiga dell’Università patavina, era quello di realizzare non tanto una “sincronia” ma una “sintonia” tra immagini e suoni. «La Natura è una», affermava Goethe, e l’accostamento proposto al Castello dei Carraresi ha suggerito all’immaginazione l’analogia tra le leggi che sorreggono i capolavori artistici e quelle che presiedono alle creazioni dell’Universo.
I temi del viaggio (Reise) e della peregrinazione (Wanderung), tanto cari a Schubert, si declinano così in senso cosmologico esaltando l’affinità tra le potenti strutture galattiche, emananti terribile e spaesante infinità, e le poderose architetture del suono, fondate su semplici cellule primordiali, contenute nell’Andante introduttivo del primo movimento.
Angius porta alla luce la potenza dell’impulso ritmico, motore della struttura musicale come dell’ordine cosmico, e traccia orizzonti sconfinati grazie a un attento equilibrio delle masse orchestrali. Emerge struggente tutta la dolcezza schubertiana mentre le modulazioni armoniche si sciolgono nei prismi di luce e nelle fantasmagorie di colori disegnati dalle galassie, lasciando nell’animo dell’ascoltatore, come osservava Schumann, «un sentimento di ricchezza profuso dovunque che ricrea l’animo». Caldo successo e pubblico gremito.
Foto di copertina: Marco Angius Ph. Silvia Lelli
Fotogallery Ph. Filippo Chinello