Se è vero che gli occhi sono specchio dell’anima nell’intensità del suo sguardo non si può che trovare conferma della grande sensibilità espressa dalla sua musica. Uno dei più grandi violinisti dei nostri tempi è tornato. E il suo ritorno è stato un trionfo. L’auditorium del Teatro Dal Verme ha ospitato lo scorso 10 aprile, per le Serate Musicali, il recital del violinista originario di Novosibirsk, Maxim Vengerov, accompagnato al pianoforte da Polina Osetinskaya. “Musica senza compromessi” è una sua frase ricorrente e, a sentirlo suonare, se ne comprende il senso. La sua folgorante carriera è ben nota: a soli dieci anni vince il “Wieniawsky”, a 16 suona con le compagini orchestrali più prestigiose diretto da bacchette del calibro di Valery Gergiev, Carlo Maria Giulini, Riccardo Chailly e Zubin Metha. Allievo prediletto di Zakhar Bron, 25 album incisi per le etichette Teldec ed Emi contenenti i capolavori del repertorio violinistico. Mancava dalle scene da diversi anni ufficialmente per un problema alla spalla. Anni in cui non ha mai smesso di dedicarsi alla musica e ha studiato direzione d’orchestra. L’ultima sua apparizione in Italia risale al 2006, il palco fu quello del Teatro alla Scala, i concerti che eseguì Beethoven per violino e orchestra e il doppio di Bach insieme al collega greco Kavakos.
In programma per il suo ritorno sotto le luci della ribalta la Sonata n. 1 per violino e pianoforte in sol maggiore op. 78 e la Sonata n. 3 per violino e pianoforte in re minore op. 108 di Johannes Brahms, la Sonata in sol maggiore per violino e pianoforte di Maurice Ravel, il cantabile in re maggiore per violino e pianoforte op. 17 di Niccolò Paganini e I palpiti in la maggiore op. 13 (Introduzione e variazioni sul tema «Di tanti palpiti» dal Tancredi di Rossini) nella trascrizione per violino e pianoforte di Fritz Kreisler. Inutili quanto superflue le considerazioni su padronanza tecnica e morbidezza del suono. Inconfondibile la sua scuola, immobile ed elegantissima la postura. Lo Stradivari “Kreutzer” nelle sue mani sprigiona pura magia, nonostante l’infelice acustica della sala. L’intesa tra i due cameristi è esemplare, il suono viaggia sinuoso senza che il pianoforte sovrasti mai il violino, in una totale condivisione d’intenti espressivi. Cavata, fraseggio, presenza scenica, varietà dinamiche, memoria, infinita poesia e grande umanità ammaliano, sorprendono, avvolgono e catturano: il dio del violino è tornato.
Il pubblico, in visibilio, è travolto dal sentimento, dalla sensibilità, dalla fluidità e dalla bellezza del suono. Le finezze interpretative nella lettura dei capolavori brahmsiani viaggiano in un continuo alternarsi di profonda intensità sonora e di pianissimo mozzafiato; ma anche nell’impeto dei fortissimo il suono non appare mai sforzato, non perde la sua grazia. La sua destra è fenomenale e, nel complesso, mai si percepisce una sbavatura, un’incertezza. Il suo è un linguaggio dalla chiarezza e dalla spontaneità assolute. Nei movimenti lenti la voce del violino si fa struggente così come in Ravel emerge chiaramente il carattere di una scrittura eterea, librata e sognante. Dopo il “grandioso vocalizzo italiano” di Paganini e i virtuosismi funambolici ed esasperati di Kreisler, tra pizzicati, colpi d’arco, armonici, effetti, corde doppie, balzati e la precisione di passaggi ineseguibili, il controllo si fa assoluto.
Il concerto termina con il pubblico, per l’occasione piuttosto numeroso, entusiasta e la generosità di ben quattro bis: di Fritz Kreisler, Caprice Viennois e Tambourin Chinois e, ancora, la Danza ungherese n. 2 di Brahms e Méditation da Thaïs di Massenet. Maxim è tornato e con lui quel suono unico di violino che, semplicemente, viene dal cuore.