Vent’anni di Sentieri Selvaggi, e una lunga relazione d’amicizia con Michael Nyman: è un concerto molto sentito quello andato in scena lunedì 10 aprile nella Sala Shakespeare dell’Elfo Puccini di Milano. Accantonata la parte più nota della sua produzione, ovvero la musica per film (sebbene qualche citazione tratta dai film di Greenaway si scorga qua e là), Carlo Boccadoro e soci ci conducono a una scoperta del Nyman meno conosciuto, più slegato all’evento particolare della circostanza filmica. Un’esibizione molto suggestiva e tutta incentrata sulla sua attività di compositore “puro”.
Sono tutte opere troppo riduttivamente riconducibili alla corrente minimalista, da cui il compositore inglese – che pure ha coniato il termine – ha sempre saputo smarcarsi con grande originalità, dando vita a una personale interpretazione molto fisica, quasi carnale del minimalismo. E il programma scelto da Sentieri Selvaggi va ancora oltre, se possibile, a questa direzione: c’è un furore selvaggio, quasi punk, nella musica eseguita che, insieme alla precisione certosina della scrittura, costringe i musicisti a compiere uno sforzo ragguardevole in un’esecuzione sopra le righe per la maggior parte dell’esibizione. Se può apparire musica “semplice” da ascoltare, altrettanto non si può dire dal punto di vista performativo.
Già nel 2007, in occasione del decennale di Sentieri Selvaggi, Nyman dedicò loro Love Always Counts, una rielaborazione dell’ouverture di Love Counts. Quasi ovvio che si scelga di partire da questo lavoro e dalla sua frenesia poliritmica; segue Viola and Piano in un curioso adattamento per quintetto senza la viola, ancora più trascinante del precedente. La maggior ricchezza timbrica garantita dall’ensemble, rispetto all’originale duo, pone gli accenti sulla peculiarità dello stile compositivo di Nyman, atto a procedere per pannelli ritmici fittissimi, sui quali si dispiegano melodie sempre diverse, ma sempre simili, una staticità solo apparente. La complessità performativa di cui sopra si avverte in modo lampante nel più recente String Quartet n° 5 (Let’s not make a song and dance out of it), proprio perché in certi momenti sembra venire meno quel vigore necessario a sorreggere l’andamento energico di buona parte dell’esecuzione, che risulta dunque un po’ scialba.
In questo senso si rende fondamentale l’esecuzione per flauto solo di Yamamoto Perpetuo, utile per ricaricare le batterie all’ensemble, in particolare agli archi e alle loro braccia messe a dura prova. L’eccellente intermezzo solista di Paola Fre permette di ripartire con un brano dal sapore rock come Child’s Play, il più vecchio tra quelli proposti (1985): si tratta di un lavoro che, più degli altri, fa del furore il suo centro nevralgico, per via del contrasto con le sezioni dal carattere onirico che svelano anche gli aspetti più delicati della scrittura di Nyman.
Il concerto si chiude con la prima esecuzione assoluta di Two Songs che in parte sovverte l’andamento fin qui tenuto: nella prima canzone, Racine, all’ardore ritmico prevale la tragedia, pur sempre mediata dal sogno (il testo, una poesia di Frederick Seidel, parla dell’incontro di un pilota con una donna colta e bellissima a Milano. O è solo l’allucinata fantasia di un internato nei campi di concentramento?). Mentre in The American Hand Gramophone Reproducer il compositore gioca sull’ironia e sulla sua passione per le anticaglie, musicando le istruzioni per l’avviamento del grammofono a 78 giri. In entrambe le canzoni è la bella voce di Giulia Peri a presentare un Nyman diverso da quanto ascoltato fin qui, meno forsennato e robusto; ma ugualmente apprezzato.