In occasione del concerto per i settant’anni di Salvatore Sciarrino, tenutosi il 18 luglio scorso nell’ambito del Chigiana International Festival di Siena (leggi qui la recensione), abbiamo incontrato il Maestro per discorrere con lui del suo percorso artistico fino ad oggi, del suo pensiero compositivo e dei suoi progetti futuri.
Maestro Sciarrino, nel corso del suo lungo percorso artistico, iniziato a metà degli anni Sessanta, ha visto fiorire gran parte delle principali esperienze estetiche del secondo Novecento. Come le vede oggi e qual è stato il suo rapporto con esse?
Sicuramente sono esperienze che mi hanno molto segnato, ma non so se generalizzare quella che è stata la mia esperienza personale. Ritengo che alcuni miti, alcuni nomi, sebbene indicati come fondamentali, abbiano poi subito in qualche modo una parziale eclisse. Quello che vedo adesso, rispetto a un tempo, è soprattutto la relatività di ciò che era emerso in un primo momento come tendenza prevalente e, in realtà, pur avendo vissuto quelli che vengono considerati da molti come gli anni d’oro della musica contemporanea, devo dire che non in tutto li trovo gloriosi. Li ho trovati sicuramente interessanti come occasione di sperimentazione in cui si sono viste fiorire cose straordinarie ma, allo stesso tempo, penso che la musica contemporanea, essendo il punto che intreccia passato e presente incontrando il futuro, sia un cammino che non permette di vedere chiaramente ciò verso cui si tende e ciò che realmente viene acquisito. Personalmente, tendo piuttosto a una visione per cosi dire naturale, come se tutte queste novità fossero parte di un moto ondoso: guardando da vicino, possiamo osservare una ad una delle onde che poi, con l’allontanarsi del punto di vista, risultano più confuse o parte di movimenti fra loro distinti.
A mio modo di vedere, il mondo della cultura è un mondo instabile, mutevole, e lo dico non solo dal punto di vista delle cose che vengono prodotte, ma anche della cultura stessa. Oggi ad esempio, durante la prova [prima del concerto del Quartetto Prometeo con Matteo Cesari e Yoshua Fortunato, ndr.], mi chiedevo che forza abbiano oggi queste composizioni di Scarlatti appena si trova loro una fisionomia lievemente diversa da quella in cui si sono sedimentate e coperte di polvere nei secoli. In fondo, fanno parte di quanto nel nostro piccolo ci dà vita ed energia pur non rientrando nel pieno della vita collettiva. Non dico che si tratti di cose per specialisti, ma Gesualdo, Domenico Scarlatti o Stradella restano fenomeni isolati. Ciò che se ne coglie oggi è la scomparsa, non la presenza. Proprio per questo, non dobbiamo preoccuparci di cosa resterà di noi, perché già solo il pensarci genererebbe una prospettiva aberrante. Bisogna fare le cose in cui si crede e che si amano: l’attività ha la sua ragione nella passione.
Fin dall’inizio della sua carriera, uno dei fili conduttori più ricorrenti nei suoi scritti e nelle sue conferenze è stato il continuo richiamare l’importanza di un dialogo critico con la storia e con gli altri campi del sapere e dell’arte, da un lato in polemica con l’antistoricismo di alcune esperienze dell’avanguardia e dall’altro con il paludato ambiente accademico dei conservatori. Come vede la situazione di oggi?
Non mi pare che sia migliorata. Anche se c’è stato un momento in cui sembrava che la situazione potesse in qualche modo evolversi, da certi punti di vista direi quasi che sia peggiorata. Sentir dire, ad esempio, che in certi paesi europei viene separato l’insegnamento della composizione moderna da quella in senso tradizionale mi pare veramente un sintomo di perdita d’identità. Eppure, quando si parla con delle persone nate in America, ci si rende conto che ciò che più le colpisce di noi europei è proprio questo: un’identità di lungo corso, proiettata in noi, e che loro non hanno. Mi verrebbe da dire che, da un certo punto in poi, si sia cercato di fare tabula rasa e riiniziare da capo per tener dietro agli americani, seppur con secoli di ritardo, e questo mi sembra un paradosso. Il problema però non è l’inserimento della cultura nella musica o della musica nella cultura, ma la situazione in generale, e non parlo solo di quella italiana. La scuola di oggi tende a richiederci un minore sforzo di approfondimento della cultura e, se da un lato si studia di meno, dall’altro si ha un rapporto più veloce e superficiale con le informazioni. Navigando in internet consultiamo e riconsultiamo senza memorizzare nulla, e questo va contro l’aspetto persistente della cultura. Non creando memoria, l’esperienza scivola via senza radicarsi dentro di noi, determinando maggiore superficialità e disgregazione in una massa di nozioni sempre più separate fra loro e contribuendo in larga parte a questi appuntamenti mancati con una maggiore organicità del sapere umano. Certo costa fatica organizzare in noi il tutto, ma è solo questo a portare i frutti più importanti e a darci piacere ed entusiasmo permettendoci di vedere legami fra le cose di cui normalmente non ci accorgiamo. Riuscire a concepire solo legami chiusi e prospettive prefissate è una cosa che dovrebbe preoccupare. Alla fine però non riesco ad essere pessimista, perché sono convinto che, per quanto si cerchi di classificare ed incasellare la creatività, essa si rinnova sempre, fino a sfuggirci: è possibile, ad esempio, che le prossime generazioni siano meno ingenue di noi nell’uso di internet e che, anziché giocarci, arrivino ad usare questa risorsa come mezzo di informazione e collegamento. Il nostro problema è dato dal fatto che ci giochiamo subendone l’inflazione nella nostra vita, cosicché il tempo si riduce e si disperde in contatti più frenetici, più veloci e più numerosi, in cui quello che conta non si concretizza mai. Rapporti virtuali, appunto.
Studiando la sua musica, si nota il mutare nel tempo di diversi centri d’interesse, dalla ricerca sulla figura e la forma, al lavoro su materiali musicali preesistenti, per arrivare alla creazione di una nuova vocalità che ha poi esteso anche alla scrittura strumentale, solo per citarne alcuni. Come si è trasformato il suo modo di pensare la musica in questi anni?
Questa domanda sicuramente caratterizza in maniera appropriata alcune fasi distintive del mio percorso ma, allo stesso tempo, ne offre già una visione prospettica. Il mutamento è stato in realtà così graduale che, visto da opera ad opera, non è quasi possibile distinguere dei momenti così individuali e diversificati fra loro. Per me il comporre pone dei problemi che si spostano sempre, come l’orizzonte. E questo naturalmente fa sì che, una volta arrivati quasi alla fine di un’opera, la mente tenda già a proiettarsi verso una diversa prospettiva dello stesso problema o a una sua differente declinazione, sotto la spinta di un certo senso di insoddisfazione o di inquietudine, o ancora dal desiderio di mutare o ripetere variata l’esperienza appena fatta. Ci sono però degli aspetti del mio lavoro che, sebbene meno dichiarati, sono costantemente rimasti al centro della mia attenzione. Ad esempio, l’interesse per la forma e per i meccanismi di base del linguaggio, linguaggio inteso in senso generale sia dal punto di vista della realtà umana o animale sia da quella inanimata dei cristalli. Cogliere tali meccanismi e approfondirli è forse per me ciò che sta davvero alla base di tutto. Un altro aspetto cruciale poi è vivere il tempo, un’esperienza che esiste solo per l’uomo. Se non c’è qualcuno che lo contempla, il tempo non esiste. Se vogliamo quantificarlo, proprio come si fa per la velocità della luce o i movimenti dei pianeti, c’è bisogno di presupporre qualcuno che misuri, è ciò che fa la mente umana. Tutto ciò ci dovrebbe spingere a un atteggiamento meno assolutistico e invece, solitamente, pensiamo al tempo come a qualcosa di oggettivo.
A proposito di oggettività e relatività, pensa che ci possa essere una qualche coincidenza fra le sue intenzioni scrivendo un nuovo lavoro e il senso che il pubblico gli darà? Come influenza tutto questo il suo modo di lavorare?
Come talvolta ho detto, ho avuto e ho tutt’ora interessi molto diversi che abbracciano varie discipline anche in campo scientifico e, dal momento in cui tutto il sapere è interconnesso – la fisica con la filosofia antica, ad esempio – spesso alcune di queste passioni che si erano manifestate in un’età per me ormai quasi immemorabile ritornano per offrirmi delle visioni completamente diverse di cose che credevo di conoscere già. Mi è capitato proprio in questi giorni, ad esempio, di rivedere dopo quarant’anni la Maestà di Simone Martini e, nell’osservarla, mi sono reso conto di essere così cambiato e di aver sviluppato un tale occhio per l’arte figurativa in tutto questo tempo che mi sembra non solo di guardarla in modo diverso, ma di leggerla per davvero per la prima volta. Se poi penso al mio modo di ascoltare la musica, il discorso è analogo. Oggi, mentre sentivo in prova Omaggio a Burri [lavoro composto nel 1995, ndr.], mi rendevo conto che, in fondo, in un pezzo del genere è estremamente connaturato l’aspetto simbolico della vanitas, cioè il sentire le cose che si svuotano lasciandosi dietro solo la propria ombra. Al di là del fatto che i materiali sonori usati siano appena percepibili nel brusio del mondo, essi rivelano la vanità della misurazione del tempo. Iniziamo col sentire degli orologi, poi la musica si svuota e mostra il proprio scheletro: il rumore della meccanica degli strumenti. Da come ascolto questo lavoro oggi, potrei quasi dire che è come se fosse stato composto da un altro. Alcune cose mi arrivano, altre no.
Quando scrivo, faccio quindi in modo di non dare troppa importanza alle mie intenzioni. Cerco piuttosto di entrare nella musica e allo stesso tempo di uscirne, di vederla e di ascoltarla con un orecchio del tutto diverso perché, se non facessi così, sarebbe come se mi parlassi addosso e questo non servirebbe né a me né agli altri. Chi fa il compositore è un’antenna che capta per le altre persone, e la coscienza di questo fatto andrebbe sviluppata in chi scrive con pazienza e disponibilità, perché è una cosa che si impara e che non nasce spontaneamente. Sebbene, come dice Konrad Lorez, l’estetica sia un campo di ‘aggressività convertita’, allo stesso tempo è un luogo di grande amore e di grande donazione di sé perché, quando riusciamo a risolvere i nostri problemi estetici, questo va soprattutto a vantaggio di chi ci ascolta. È anche per questo che la composizione non può essere un attività svolta di fretta.
In che senso?
La fretta non può dare buoni risultati perché, in genere, le scorciatoie nel campo dell’estetica sono sterili. Hanno molto più da offrire le prospettive aperte, che contemplano arricchimento e semplificazione allo stesso tempo e, da questo punto di vista, la semplificazione come punto di arrivo è una cosa importantissima e che richiede tempo, riflessione. Quando mi sono reso conto di trattare la voce in un modo non abbastanza consono alla sua natura è stato per me un momento fondamentale. Non solo perché mi ha spinto a semplificare e chiarire tutto ciò che prima non arrivava direttamente al cuore della questione, ma anche perché la presa di coscienza di questo problema me ne ha poi fatti affrontare altri, come ad esempio quello dell’espressione, che deve evitare di essere schiacciata dai modelli – sia antichi, sia moderni – e dai loro cliché. Se è vero che da un lato i modelli ci possono sovrastare, dall’altro essi ci possono servire come trampolino non solo per emularli ma per superarli, e una prospettiva mutata. Sebbene il problema della creatività non sia solo l’approntamento di cose nuove, ma innanzitutto lettura del mondo che ci circonda, il nuovo è importante perché ricalcare il vecchio non servirebbe a molto. Se ci limitassimo a conservare l’antico, vorrebbe dire che il linguaggio è morto. E, in fin dei conti, vogliamo un mondo vecchio o un mondo giovane? Io vorrei un mondo giovane.
Nonostante il suo pensiero sul suono sembri a tratti convergere con certe esperienze della musica elettronica, all’interno del suo catalogo i lavori con elettronica sono tutto sommato assai pochi, sebbene si tratti di opere che, come Perseo e Andromeda, testimonino un interessamento non certo occasionale. Qual è, in generale, il suo rapporto col mezzo elettronico?
Non mi sono più dedicato all’elettronica, soprattutto negli ultimi anni, perché si usano ormai sistemi troppo standardizzati che non mi consentirebbero di lavorare su aspetti, per me importanti, che non sono neanche contemplati dai mezzi attuali. Non essendo in grado di elaborare software a modo mio ed essendo comunque troppo complicato formare un’apposita équipe di lavoro, in realtà alla fine, come Grisey stesso mi diceva, è più semplice comporre per gli strumenti. Questo però, ci tengo a dirlo, non va inteso in prospettiva antiprogressista: usare gli strumenti acustici non vuol dire andare contro la tecnologia. Ci sono evidenti logiche comuni fra questi due mezzi e, in ogni caso, il linguaggio ha molte possibilità di traduzione sui diversi livelli di queste dimensioni, due dimensioni che, anche se possono sembrare in contrasto o addirittura incompatibili fra loro, in realtà non lo sono per nulla. In ogni linguaggio ci sono sempre delle relazioni logiche e degli aspetti di forte emotività che, sebbene meno appariscenti, sono traducibili e costituiscono il vero e proprio motore della creazione musicale. Tuttavia, devo dire che forse un’occasione per me mancata è stata l’invito, arrivatomi purtroppo in un momento non adatto, a lavorare con l’assistente di Iannis Xenakis a Parigi. Credo che le sue ricerche fossero qualcosa di interessante. In generale però, guardando la storia della musica elettronica, sebbene ci siano state alcune opere che hanno veramente aperto nuovi mondi, mi sembra che non ci siano poi state le mietiture che sarebbe stato legittimo attendersi.
Nel tempo, il suo catalogo si è arricchito di un numero sempre crescente di opere teatrali, l’ultima delle quali, Ti vedo, ti sento, mi perdo, sarà presentata in novembre al Teatro alla Scala durante il Festival Milano Musica. Che cosa le interessa di questo genere musicale che nel corso dell’ultimo secolo è stato profondamente messo in discussione da varie esperienze artistiche?
È vero che si tratta di un genere che è stato molto discusso, però nello stesso tempo è qualcosa che mi sembra continui ad attrarre molto i giovani compositori, fosse anche soltanto per il desiderio di una maggiore visibilità o di cimentarsi in un campo di cui non si è veramente colto la complessità e il bisogno di esperienza matura. Non è facile però scrivere per il teatro. Il segreto dovrebbe essere nell’usare un linguaggio che funzioni teatralmente già all’interno della musica, perché non è il mettere qualcosa sulla scena che crea il teatro. Il teatro non è la scena, ma la rappresentazione di un’altra realtà che ci prende e ci trasporta. È innanzitutto questo che mi interessa di questo genere, il suo essere la forma musicale più sociale di tutte e il suo riunire un gruppo di persone in uno stesso ambiente per far sì che ognuna di esse, pur recependo secondo esperienze diverse, si trovi unita agli altri e trasportata altrove. Ma c’è dell’altro. Il teatro, nel suo riunire tanti aspetti, ha in sé un qualcosa di ibrido – ragion per cui è stato criticato per qualche tempo negli ambienti della musica d’avanguardia – che però, al tempo stesso, fa sì che il suo linguaggio sia più complesso. Ed è proprio questa sua complessità che mi ha attratto sempre di più negli ultimi tempi, questo suo potere di unire la forza della parola e quella della musica. Benché tutto questo mi interessasse già da molto tempo – ho iniziato a scrivere per il teatro prima che ventenne – è solo in tempi più recenti che mi si è rivelato pienamente. Se è vero, come ho detto prima, che il compositore è un’antenna che ascolta il mondo, scrivendo per il teatro, rappresentiamo la realtà sotto una forma più inquietante e, allo stesso tempo, più forte. Ad esempio, in questa mia ultima opera [Ti vedo, ti sento, mi perdo, ndr.], il nodo centrale è l’aspetto seduttivo della musica, un aspetto che non è certo facilmente rappresentabile, ma a cui sono arrivato attraverso certi miti per me fondamentali cui forse, tempo fa, non sarei stato in grado di avvicinarmi. Il mito di Orfeo, ad esempio.
Ce ne vuole parlare?
Sì, certo. In realtà, in preparazione di questo lavoro ci sono stati alcuni passi abbastanza coscienti e, da questo punto di vista, non è certo un caso che qualche anno fa abbia scritto un concerto per violino e orchestra intitolato Giorno velato presso il lago nero, cui segue La nuova Euridice secondo Rilke per soprano e orchestra [tutti lavori in cui la figura di Orfeo ha diversamente ispirato l’autore, ndr.] e Ti vedo, ti sento, mi perdo, opera in cui, a un certo punto, si racconta la morte di Orfeo. In quest’ultimo lavoro si rappresentano le rappresentazioni della musica e del teatro, e così durante la messinscena dell’allestimento di una cantata dal contenuto filosofico, che parla dei meccanismi profondi della musica, più volte entra Orfeo come soggetto. All’inizio, in mezzo agli Argonauti, Orfeo assume un ruolo razionalista: vuole coprire col suo ritmo il canto delle Sirene. Ma alla fine, è passato alla seduzione, come se si fosse tuffato verso le Sirene e muore per mano delle baccanti che, a differenza dei sassi che gli vengono lanciati e degli animali, non cedono al suo canto.
Attraverso questi due momenti, l’aspetto seduttivo della musica viene mostrato da due differenti punti di vista fra loro complementari: da un lato il ritmo e il fragore che ci trascina, che ci riporta a casa, e dall’altro lo smarrimento a rischio della vita. Di quest’opera, già due anni fa avevo realizzato un brogliaccio in cui erano presenti tutti questi spunti ma, in realtà, il libretto è andato acquisendo maggior profondità solo quando ha trovato le sue giuste parole, e questo è avvenuto nel momento in cui gli si è accostata la musica. La musica dà forma alle parole e le parole informano di sé la musica.
Quarant’anni fa, suonare Sciarrino era qualcosa che capitava a un gruppo piuttosto ristretto di esecutori capaci di padroneggiare difficoltà tecniche assolutamente inedite. Oggi, la sua musica fa parte del repertorio di quasi tutti gli interpreti che si occupano di musica contemporanea, e lavori come i suoi Capricci per violino, la sua opera per flauto solo o Let me die before I wake per clarinetto sono ormai dei capisaldi della letteratura solistica studiati dai giovani di tutto il mondo. Come ha visto mutare l’approccio degli interpreti alla sua musica in questi anni?
L’interprete ha una funzione che il compositore non può né integrare né sostituire. Certo, il compositore partecipa alla concertazione ma, se l’interprete fa davvero la sua parte, la sua lettura è in grado di fargli riscoprire la mia stessa opera. Col succedersi delle generazioni, tale lettura è cambiata in modo sempre diverso ed entrare in contatto con questo mutamento nel tempo mi stupisce ed entusiasma sempre. Tutto sommato, credo di aver avuto un atteggiamento saggio nel non cercare di imporre nessuna ortodossia interpretativa, perché credo davvero molto nella capacità creativa dell’interprete, così come in quella dell’ascoltatore. In realtà, non avrei mai pensato di comporre per cinquant’anni e, forse, se ci avessi pensato mi sarei fermato prima o avrei avuto delle cautele che invece non ho avuto. Eppure, questo fatto mi ha portato ad essere non solo attore ma anche spettatore di una meravigliosa evoluzione del linguaggio che corrisponde all’evoluzione del pensiero. Cambiando la prospettiva, si potrebbe quasi dire che cambi anche il contenuto della musica. Questo fa emergere stimoli e significati di cui non siamo sempre padroni, ma che ci regalano nutrimento ed entusiasmo.
Dopo diverso tempo dai suoi ormai celebri corsi a Città di Castello, recentemente è ritornato a insegnare [in Italia, il Maestro Sciarrino insegna all’Accademia Chigiana di Siena, ndr.]. Cosa ricerca nei giovani che vengono e studiare con lei e cosa spera di trasmettere loro?
Io non cerco di trasmettere, perché in realtà, secondo me, l’insegnamento è uno scambio reciproco e quindi penso che quello che cerco io non sia poi tanto diverso da quello che cercano i giovani. Non si tratta solo di integrazione o scambio di punti di vista diversi, ma di un contatto personale diretto mediato da un interesse comune per l’evoluzione del linguaggio. Certo, mi piacerebbe trasmettere la mia complicità con la tradizione, ma questo è difficile da fare, perché questa è già una posizione in qualche modo eretica e che mal tollera le etichette. Nello stesso tempo però, i giovani, oltre all’energia, hanno una visione del mondo giovane che è per forza di cose quella più attuale, giusta, vincente. E allora come si fa a non volerci entrare in contatto? Poco fa parlavamo di nuovo e vecchio ma in realtà qui si parla di vecchio e giovane. Dobbiamo incontrarci per forza.
C’è un lavoro che ha sempre desiderato scrivere ma che per varie ragioni non ha mai potuto realizzare?
Sì, e forse sarà la mia prossima opera. Si tratta di un desiderio accarezzato a lungo, prima in maniera quasi inconscia attraverso letture reiterate, poi in modo più cosciente e che infine si realizzerà in questo nuovo progetto. Questo non vuol dire che voglia dare una mia risposta definitiva, ma semplicemente che desidero cimentarmi ancora con un’impresa difficile, perché le cose facili non credo siano interessanti né per me né per gli altri. Si tratta di un lavoro in cui affronterò il tema dei primi tragici. Un’altra cosa, che però in realtà non ho mai teorizzato, sebbene forse si possa intuire da un certo taglio ironico che c’è sempre nei miei lavori, è il comico. Secondo me però, la tragedia non va mostrata sulla scena, va rappresentata. E il rappresentare, come testimoniano le nostre origini, consiste nel racconto: Orfeo racconta la morte di Euridice nell’opera di Monteverdi, ad esempio. Come dico spesso, tenere presenti le origini non significa ritornare indietro. Vuol dire piuttosto misurare bene i passi e prendere maggior coscienza degli aspetti più importanti, oltre che di quelli più illusori. Nel cinema, ad esempio, l’immagine può avere una forza quasi brutale, cosa che, facendo teatro, non è possibile perché manca del tutto un elemento fondamentale: lo zoom. Per avere dei primi piani in teatro, dobbiamo quindi ricorrere alla rappresentazione. Solo così una bocca può arrivare a riempire tutto l’enorme spazio del palcoscenico, ma si tratta, come ho già detto, di una rappresentazione, non di una percezione. Eppure, come spesso accade, queste cose hanno una tale forza d’incanto da farci credere, in certi momenti, di zoommare al massimo, fino a farci entrare nel profondo dell’animo dei personaggi.