Al termine del primo brano in programma, Sa Chen solleva le mani dalla tastiera e le appoggia sul grembo, mentre dalla platea non proviene alcun rumore; un attimo di silenzio, durante il quale non si comprende se il pubblico attenda l’attacco per un inesistente secondo movimento o se, più semplicemente, non abbia apprezzato. L’applauso, tiepido, scatta solo dopo che l’artista trentottenne ha platealmente richiuso lo spartito sul leggio.
Un inizio in salita per l’esibizione della cinese Sa Chen alle Serate Musicali organizzate al Conservatorio di Milano; nonostante in carriera abbia ottenuto importanti riconoscimenti (il quarto posto al prestigioso Leeds International Piano Competition a soli sedici anni, oppure il quarto posto all’International Frédéric Chopin Piano Competition di Varsavia nel 2000 o ancora la terza posizione al concorso Van Cliburn nel 2005), il difficile pubblico milanese non si lascia sedurre facilmente. In effetti, la tecnica della pianista testimonia di una lettura molto personale della partitura, con il rischio di scontentare coloro i quali preferirebbero una esecuzione più razionale e filologica.
Proprio il sopracitato brano d’apertura, China Gates del minimalista John Adams, è in questo senso esemplificativo: la pianista ne dà un’interpretazione molto intensa, ben lontana dall’algido nitore che richiederebbe. Così facendo, sembra dotare di una dimensione emotiva quella che è nient’altro che sequenze di ostinati alternantisi su quattro modi differenti.
Lo scarto con la filologia prosegue anche con Beethoven: Sa Chen ha la tendenza, un po’ eccessiva, ad enfatizzare il più possibile le pause e i silenzi, soprattutto nei momenti di pianissimo. Un utilizzo dell’agogica che, sebbene (personalmente) apprezzabile (per quanto discutibile) in China Gates, risulta troppo esasperante all’interno della retorica beethoveniana, mossa anche – o, forse, soprattutto – da un impeto romantico che non sembra essere nelle corde della pianista.
Ciò vale per la virtuosistica Fantasia in sol minore, op. 77, in cui emerge forte la sensazione che Sa Chen non si trovi a proprio agio con i repentini cambi dinamici della composizione; e vale anche per l’Adagio della Sonata n. 14 in do diesis minore, ovvero il celeberrimo “Chiaro di luna” che valse il soprannome a tutta l’opera. In un movimento in cui il largo uso del pedale, l’arpeggiare e la melodia semplice e sognante rendono con estrema semplicità ed efficacia il momento contemplativo, l’eccessiva dilatazione del metronomo porta all’esasperazione delle dinamiche fino quasi a rasentare la soglia dell’udibilità. Ancora una volta il pubblico non sembra condividere le sue scelte performative, ma il giudizio muta radicalmente quando la pianista affronta il terzo movimento della sonata: un’esecuzione decisa e brillante che, sebbene “sporcata” da qualche incertezza nei trilli, inizia finalmente a mostrare anche il lato più virtuoso e meno intimista della pianista.
Lo sbocciare definitivo della musicista cinese è sancito dalle tre Danzas Argentinas op. 2 di Alberto Ginastera, affrontate con decisione. Una prova senza eccessi, forte e sicura come non si aveva mai avuto fino a quel momento, in particolare nella sicurezza con cui controlla il ritmo a tratti vorticoso, a tratti furioso della prima e della terza danza.
La seconda parte del concerto è tutta dedicata al primo libro dei Préludes di Debussy, i quali sotto le dita della pianista diventano dodici piccole gemme. Si passa agilmente dalla soave leggerezza del preludio n. 2 (Voiles), alla monolitica eleganza de La cathédrale engloutie e alla gioiosa Danse de Puck. I problemi posti in luce nell’esecuzione di Beethoven sembrano essersi tramutati nei punti di forza del carattere di Debussy, compositore dall’animo certamente più delicato e, forse per questo, a lei più congeniale. Tanto che la sua performance non sfigurerebbe accanto a quelle più prestigiose dei grandi maestri del passato (si pensi alla magistrale esecuzione di Gieseking, per esempio). Anche il pubblico milanese alla fine è conquistato e applaude convinto.