In questi tempi di diffusa siccità culturale, se qualche teatro fa qualcosa, e se lo fa bene, non contribuisce all’andazzo generale come una goccia nel deserto: vi contribuisce con la provvidenzialità di un elisir di lunga vita. Il Teatro Filarmonico ha presentato per l’inaugurazione della stagione lirica 2021 dell’Arena di Verona un amuse-bouche rossiniano, un Barbiere di Siviglia firmato da Pier Francesco Maestrini e diretto da Francesco Ivan Ciampa (31 gennaio), ottimo preludio di una programmazione gustosissima e dai sapori diversi. Il calendario verrà insaporito con un pizzico di barocco inglese (Dido and Æneas il 28 marzo), una spolverata immancabile di Mozart (Così fan tutte il 31 ottobre), un po’ di verismo nel mezzo (Zanetto nel mese di maggio) e una guarnizione novecentesca (La Voix humaine di Poulenc e The telephone di Menotti a fine novembre).
Seconda “portata” di questo menu per palati raffinati, un insolito dittico disponibile in streaming dallo scorso 28 febbraio sulla Web TV arenatv.uscreen.io. Si trovano a convivere uno degli ultimi capolavori pucciniani, l’atto unico Il Tabarro (1918), opera da brividi per pàthos e bellezza, e l’unico esperimento comico di Amilcare Ponchielli, Il Parlatore eterno (1873), su libretto di Antonio Ghislanzoni, che intriga se non altro per la sua rarità.
L’Orchestra della Fondazione Arena di Verona in platea – come ormai di consueto in questa infingarda epoca pandemica – dà complessivamente buona prova di sé sotto la bacchetta di Daniel Oren, che però dirige con una tal quale omogenea magniloquenza apprettativa, senza slanci di immaginazione e piuttosto sfrontierando nell’eccesso, forse nel genuino desiderio di enfatizzare i sentimenti laceranti dei personaggi.
Ne Il Tabarro, lo si sospetta, certe cubature di suono roboanti non devono aver troppo agevolato il cast durante la performance. Pericolo sventato nello scherzo comico ponchielliano per un’unica, lampante ragione: trattandosi di una partitura dal retrogusto rossiniano-donizettiano (pur essendo del 1873), sciorinata in punta d’archetto; un lavoro-divertissement intessuto da acrobatici scilinguagnoli intervallati da brevi momenti cantabili, tutti assai graziosi e compìti come un cameo, seguendo il vademecum dell’opera comica dei bei tempi andati.
Sul fronte registico non ci sono arditezze, è evidente – e forse anche meglio così – ma in entrambi i casi il tutto risulta funzionale e giocato su pochi, simbolici, elementi. Il Tabarro è firmato dal consolidato duo Paolo Gavazzeni–Piero Maranghi, che non sbaglia un colpo. Anche questa volta. Il loro team, impreziosito da Leila Fteita (scene), Silvia Bonetti (costumi) e Paolo Mazzon (luci), contribuisce al sicuro successo di questo allestimento. Senza tralignare dalla tradizione, ecco il barcone attraccato sulla Senna su cui nascono amori e solitudini, incomprensioni e gelosie. Sullo sfondo non il profilo della Ville Lumière ma un cielo increspato da nuvole a esaltare via via l’atmosfera tragica della vicenda, dai colori ramati del tramonto alle tenebre della notte più cupa.
Il cast de Il Tabarro è capitanato da tre artisti eccellenti. Presenza emotiva e natura teatrale caratterizzano Maria José Siri, soprano che con grande espressività sa restituire dimensione drammatica e tutte le inquietudini del personaggio di Giorgetta, ragazza vanamente in cerca della felicità. La affianca Samuele Simoncini, tenore dalla vocalità piena e morbida che sale con agilità e luminosamente in acuto. Con questa produzione conosce il suo debutto nel non facile ruolo di Luigi, affrontato con impegno scenico notevolissimo. Ammirevole per forza scultorea nel canto e per immedesimazione, il baritono Elia Fabbian è calato perfettamente nei panni del marito geloso, Michele. Davvero un’ottima prova. Accurati e precisi Francesco Pittari (Il Tinca) e Davide Procaccini (Il Talpa). Periclitante, a tratti, la performance di Rossana Rinaldi (La Frugola).
Ben diversa la nuance de Il Parlatore eterno immaginata da Stefano Trespidi, affiancato da Filippo Tonon (scene) e da Paolo Mazzon (luci). Per una ventina di minuti veniamo calati nel regno, senza tempo, di una commedia vagamente surreale. Una scena unica, pulita e organizzata su due livelli ben si presta a lasciare agio al protagonista di dimenarsi e dar fiato in lungo e in largo a ciarle e cianciafruscole. Di poi, se c’era realmente bisogno di scrivere sul gran muro centrale e a caratteri cubitali Lecco 18.X.1873 (luogo e data della prima rappresentazione dell’opera) solo il regista lo può sapere. Un mero riempitivo o un modo in più – se mai fosse stato necessario – per rimarcare il voluto anacronismo della musica rispetto ai tempi in cui venne concepita?
Il Parlatore eterno è, per dirla all’ingrosso e al dettaglio, un “pezzo di bravura” per baritono. Si tratta, infatti, di un farsesco, esilarante one man show del giovane medico squattrinato Lelio Cinguetta, inguaribile logorroico che con i suoi inarrestabili sproloqui stordisce i futuri suoceri e anche il rivale in amore, Egidio, riuscendo a ottenere infine la mano della bella Susetta. La necessità di trovare per il ruolo di Lelio Cinguetta un autentico mattatore, dotato di vis comica e al contempo di «voce, voce, voce» (come lo stesso librettista suggeriva con apprensione all’editore, Giulio Ricordi), è conditio sine qua non per la buona riuscita dello spettacolo. A Verona un mattatore c’era: il baritono Biagio Pizzuti, che ha tenuto banco senza sosta, cavalcando da par suo il ritmo spumeggiante della partitura. Lo ha fatto, va detto, alla vecchia maniera dei buffi, sovente con piglio “parlante” e saccheggiando il prontuario delle “caccole” della tradizione, senza d’altronde preoccuparsi troppo di taluni sdrucciolamenti. Accanto a lui sul palcoscenico un garbato sestetto formato da Grazia Montanari (Susetta), Maurizio Pantò (Dottor Nespola), Tamara Zandonà (Aspasia), Sonia Bianchetti (Sandrina), Salvatore Schiano di Cola (Egidio) e Francesco Azzolini (Un Caporale).
Attilio Cantore
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