Nell’arco degli oltre settant’anni che ci separano dalle prime sperimentazioni del movimento avanguardista post weberniano, si sono tracciate, sviluppate e approfondite problematiche tecniche e stilistiche, nell’ambito del dibattito musicale ed estetico, talmente varie e complesse che spesso, al semplice ascolto, si stenta a collocare in modo cronologicamente corretto una composizione realizzata nell’arco di questo tempo.
Accade quindi che ascoltare Luigi Nono possa ancora oggi sconcertare più dell’ascolto di una composizione contemporanea presentata in prima assoluta. Accade anche che la violenza, la drammaticità e la ricerca del nuovo linguaggio musicale di Luigi Nono possa sembrare più attuale di quella di Emanuele Casale. Eppure tra i Canti di vita e d’amore del compositore veneziano, che fu tra i protagonisti della scuola di Darmstadt, e le Variazioni sulle cose di Casale, sono racchiuse le vicende di tre quarti di secolo della musica italiana; sintesi di due epoche diverse ma anche di preoccupazioni diverse. Due brani lontani dunque, distanti anni luce, ma che hanno in comune, nella sostanza e nelle intenzioni, una riflessione sulla memoria di gesti e cose, sulla coscienza, sull’amore e la speranza tra gli uomini, sintetizzata già nel 1939 da Bertold Brecht nel celebre verso «all’uomo un aiuto sia l’uomo», un messaggio alle generazioni future, affinché non lascino al silenzio e all’oblio il male prodotto dall’essere umano.
Tutto ciò fa da collante al programma eseguito l’8 e 9 febbraio al Teatro Politeama Garibaldi di Palermo per la Stagione dell’Orchestra Sinfonica Siciliana. A dirigere sul podio è stato Marco Angius già direttore dell’Orchestra di Padova e del Veneto e coordinatore dell’Ensemble dell’Accademia Teatro alla Scala di Milano.
Le Variazioni sulle cose di Casale, presentata in prima assoluta su commissione della stessa Orchestra Sinfonica Siciliana in occasione dei sessant’anni di attività, si articola in due movimenti senza soluzione di continuità. È una pagina interamente costruita sulla reiterazione di scale ascendenti che, dopo un inizio rarefatto, intimo e dal carattere estremamente poetico, ben reso dai suoni sfuggenti e sognanti della celesta rafforzati dal pianoforte, si intrecciano in un gioco sempre crescente e sempre più frenetico, fino a culminare, come in un lento crescendo di ravelliana memoria, in gesti irruenti, vivaci e plateali. Il tentativo di evocare la gestualità e la purezza (Come tenere una mano – I movimento) è resa molto bene grazie al senso di staticità dei suoni puri che successivamente lascia spazio ad un dialogo serrato dal clima festoso e irriverente (Viva le cose – II movimento).
La riflessione sull’essenza e sulla gestualità, intesa nel rapporto con l’altro, nel ricordo, nella speranza di un amore come forza d’opposizione e quindi anche nell’esorcizzazione del pericolo, sembra un discorso unico con il brano successivo. La vasta partitura dei Canti di vita e d’amore: sul ponte di Hiroshima, per soprano, tenore e orchestra, fu presentata da Nono a Edimburgo nell’agosto del 1962 e successivamente in prima esecuzione italiana proprio a Palermo nell’ottobre dello stesso anno durante le Settimane Internazionali di Nuova Musica. I tre testi, di Günter Anders, Jesus Lopez Pacheco e Cesare Pavese, riconducono tutti al tema dell’oppressione e della follia criminale cui solo l’amore e la libertà è dato opporvisi. Il discorso musicale si sviluppa attraverso l’alternarsi di picchi di tensione con momenti di breve sospensione; tutto ben evidenziato da un’esecuzione drammatica e vigorosa in cui Angius riesce a imprimere carattere e personalità. Le parti vocali sono sostenute dal soprano Damiana Mizzi, a suo agio in un repertorio che ben conosce, e dal tenore Luigi Petroni, voce sicura e sapientemente dosata.
Non altrettanto bene invece l’ultima parte del programma, in cui la «celestiale» Quarta Sinfonia di Gustav Mahler avrebbe meritato maggior attenzione nell’espressività e nel gioco di volumi. L’esecuzione è stata agitata e ingiustificatamente adrenalinica anche là dove l’intimità avrebbe dovuto trovare di diritto il suo spazio (III movimento). Il previsto (da Mahler) organico ridotto e le indicazioni in partitura dei quattro movimenti (riflessivo, non affrettato, molto comodo – con movimento tranquillo, senza fretta – calmo – molto comodamente) raccontano una storia diversa, che purtroppo non c’è stato modo di comprendere neppure là dove il testo chiarificatore dell’ultimo tempo (Das himmlische Leben) è stato rovinato da uno sbilanciamento di volumi tra il soprano e l’orchestra che ha penalizzato la giusta interpretazione pulita, pacata e intima della Mizzi.
Immagine di copertina: Marco Angius Ph. Silvia Lelli