Il britteniano “A midsummer night’s dream” al Teatro Massimo di Palermo, di scena sino al 27 settembre, non ci conduce immediatamente nel mondo magico del bosco, ma si apre con una scena metateatrale, ancora senza musica, fuor dal libretto, riprendendo uno dei temi dell’opera: il teatro nel teatro, appunto.
L’allestimento è del Palau de les Arts Reina Sofia di Valencia, la regia di Paul Curran (ripresa da Allex Aguilera Cabrera) che ha firmato anche le scene e ci racconta un Sogno dove l’avvolgente atmosfera fatata la fa da padrone con un fondale su cui è proiettata quasi sempre una luna che ricorda Melancholia di Lars von Trier, la cui inquietudine rimane solo sullo sfondo. In primo piano ci sono invece due simboli prepotenti: i resti di un tempio greco che ci ricorda l’ambientazione ateniese e la bandiera britannica, emblema della cifra stilistica della fonte shakespeariana e della ripresa di Britten, nonché firma del regista, anch’egli inglese. Il bosco e il palazzo reale hanno in comune la piattaforma girevole del tempio che ruota nel momento di maggiore scompiglio tra le coppie di amanti e la cui presenza tuttavia non sembra così urgente: se anche la storia non fosse ambientata ad Atene, soprattutto nelle intenzioni di Britten laddove il sogno regna sovrano, sarebbe stato così determinante? Tuttavia il tempio non è integro: forse metafora di una realtà che si disgrega nel sogno? Sogno che si pensava più languido e seducente, spregiudicato.
Foto © rosellina garbo
I costumi di Gabriella Ingram, con affascinanti giochi di luce, sono solo a tratti surreali: provocanti quelli femminili, su tutti quello di Titania, in stile vagamente burlesque. Più esplicita e accattivante insomma doveva essere la sregolatezza che già è nel titolo dell’opera: quando Titania si mette a cavallo sull’asino che Bottom è diventato, ad esempio, il battimani tra i due fa scemare la violenta primavera che l’opera racconta, ambigua e verace.
Oltre la magia e la comicità c’è un versante più profondo e oscuro che è già nella musica, quello dell’inconscio e della critica alle convenzioni sociali. Questo livello di lettura emerge soprattutto dalle scenografie e dalle luci di David Martin Jacques riprese da Salvatore Spataro e dall’orchestra, precisa, ben diretta da Daniel Cohen. Protagonisti nella storia e per la bravura che li ha contraddistinti sono i bambini del coro di voci bianche del teatro, alle prese con linee melodiche tutt’altro che semplici e impegnati anche in movimenti scenici coreografati a cura di Carmen Marcuccio. Il personaggio-cornice di Puck (Chris Agius Darmanin), atletico come da precetto britteniano, risulta però troppo macchiettistico. Ottima invece la prova attoriale – Britten raccomandava molto questo aspetto – della combriccola di artigiani e in particolar modo di Zachary Altman (Bottom) e Keith Jameson (Flute, brillante in Tisbe, il personaggio che interpreta nella pièce che recitano tutti a corte). Suadenti, puntuali, ferme, le voci maschili: quelle già citate, quella di Szymon Komasa (Demetrio) e, su tutte, quella di Lawrence Zazzo, un Oberon commovente, mellifluo e sfuggente, nello spirito dell’opera.