Luca Schieppati: quando la musica classica arriva in periferia

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Docente di pianoforte in Conservatorio, concertista, divulgatore e direttore artistico dei concerti di Spazio Teatro 89, una piccola ma vivace realtà, nella periferia ovest di Milano in via Fratelli Zoia 89, sostenuta dalla Cooperativa Edificatrice Ferruccio Degradi e realizzata con il patrocinio del Comune di Milano, il contributo di Coop Lombardia e la collaborazione con Serate Musicali. Interessante è l’esperienza di Luca Schieppati, che unisce il ruolo di didatta ed esecutore a quello di organizzatore di eventi con una particolare attenzione a un’area su cui pochi avrebbero scommesso.

Maestro, quanto è impegnativo portare avanti un’attività organizzativa e di promozione di concerti in un contesto urbano come quello milanese, in cui le iniziative culturali sono numerose e sembrano convergere verso le aree più centrali della città?

Milano è città musicale quant’altre mai, pressoché ogni giorno presenta una scelta di ascolti varia e di altissimo livello. In un contesto come questo se si concepisce la propria attività organizzativa come concorrenziale si è già perso in partenza: chi può avere la folle ambizione/presunzione di competere con istituzioni immense, storiche e di rilevanza internazionale come molte di quelle presenti nella nostra città? Ma per fortuna la competizione in questo caso non sarebbe solo un folle miraggio, bensì anche un falso problema: la musica fra le tante sue peculiarità meravigliose ha anche quella di moltiplicare le energie e le potenzialità tanto più quanto più la si condivide. Quindi una città come Milano, dove l’offerta musicale è lussureggiante al pari delle bellissime palme sempre più verdeggianti in piazza Duomo, è proprio il luogo migliore per fare, ascoltare, produrre, organizzare musica. Anche nelle periferie, perché il percorso già iniziato dalle ultime amministrazioni e da tante associazioni di cittadini verso una città multicentrica è già in gran parte realizzato, e dunque c’è un pubblico in crescita in tante zone cittadine. Questo non significa che sia tutto semplice, anzi! I problemi sono quelli di tutti gli operatori culturali, ovvero reperire risorse, trovare sostegno e collaborazione, mettere in moto dinamiche che, partendo dalla propria area, arrivino a coinvolgere tutta la città. Ma che anche in periferia le energie e le possibilità di trovare spazi e di far crescere insieme all’offerta anche la domanda di musica dal vivo siano tante e ancora in crescita, questa mi sembra una realtà certa, importante e di cui essere ragionevolmente soddisfatti. Romanzando e scherzando un po’, diciamo che se nei primi anni di attività potevo alle volte sentirmi un Fitzcarraldo che porta l’opera lirica nella Foresta Amazzonica, adesso direi proprio di no: nei dintorni del teatro so che non troverò anaconde bensì, solo per fare qualche esempio, l’efficientissima fermata della MM 5 e il modernissimo complesso residenziale Zoia.

L’attuale rassegna di “In Cooperativa per Amare la Musica” è giunta alla diciottesima edizione. Un traguardo significativo, a conferma che si possa fare divulgazione culturale pur disponendo di minori risorse e lontano da palcoscenici più noti. Anzi, probabilmente uno scenario più raccolto favorisce il passaggio di certi messaggi e consente un’interazione concreta con il pubblico. Quali sono i pregi che hanno reso questa manifestazione così longeva?

In effetti, la nostra rassegna quest’anno ha compiuto diciotto anni. Siamo dunque maggiorenni. Ma ancora con tanto spirito adolescenziale, mi vien da dire, perché credo sia rimasto intatto l’entusiasmo con cui nel 2000 iniziammo grazie all’impulso di Claudio Acerbi, persona straordinaria, generosa e lungimirante. Senza di lui – scomparso prematuramente nel 2010, Ambrogino d’Oro alla memoria per la sua preziosa attività a favore delle periferie – con tutta probabilità Spazio Teatro 89 non esisterebbe. Fin dalla prima edizione l‘idea di Claudio, da me subito entusiasticamente assecondata, è stata quella di togliere all’evento-concerto quegli aspetti di ormai anacronistica ritualità che ancora tengono lontane tante persone dalla musica cosiddetta classica. Ho sempre ritenuto occorra avvicinare il più possibile platea e palcoscenico, sia proponendo programmi particolari, originali, capaci di suscitare molteplici riflessioni, sia favorendo un ascolto sempre attivo, partecipe, grazie a interpreti di grande capacità comunicativa e integrando il concerto vero e proprio con brevi conversazioni di presentazione. Il tutto, auspicabilmente, con calviniana leggerezza, senza improbabili prosopopee o insopportabili eccessi didascalici: non da noi si viene per trovare “la formula che mondi possa aprirti”, al contrario noi siamo pieni di dubbi, amiamo le domande più che le risposte, nel senso che per noi ogni concerto è una prospettiva che si apre, non una parola definitiva nella storia dell’interpretazione, piuttosto un contributo per capire meglio un autore, un brano, un periodo storico. L’importante penso sia trovare il giusto equilibrio tra cultura e spettacolo, perché peggio di un brutto concerto (ma da noi proprio brutti vi garantisco non ne ascolterete) sono i concerti noiosi. E sicuramente un altro elemento molto apprezzato dal nostro pubblico è la piacevolezza del nostro spazio, che si giova di una acustica perfetta, ideale per la musica da camera per dimensioni e per la vibrante reattività della conchiglia lignea che circonda il palcoscenico. Last but not least, non in tutti i teatri si trova uno staff così amichevolmente ospitale. Ancora più last, ma ancora meno least: anche il bar è assai accogliente.

La stagione che si è aperta lo scorso mese di ottobre porta il titolo “Miglia da percorrere. Musiche, Viaggi, Volti, Maschere”. Com’è nata questa idea di considerare il viaggio e le sue suggestioni come filo conduttore dei concerti?

Penso che sia impossibile rimanere insensibili di fronte a quanto avviene nel mondo in questi tempi calamitosi: migliaia di persone che, fuggendo da realtà insostenibili, affrontano viaggi di esito incerto nella speranza di una vita migliore per loro e per i loro cari. È ciò che è capitato a tanti italiani tra Ottocento e Novecento, migliaia, milioni di emigranti che fuggivano da una sicura miseria per una incerta fortuna. E noi, giustamente, ammiriamo e rispettiamo questi nostri antichi connazionali, per il loro coraggio, la loro fede in un futuro migliore, di riscatto per loro e per i loro figli e nipoti. Perché adesso che a emigrare sono altri dovrebbe essere diverso il nostro giudizio? Anzi, forti della consapevolezza storica di quello che è stato il nostro passato, penso dovremmo, proprio noi italiani, essere più attenti, più sensibili nella comprensione e più generosi nel soccorso e nell’accoglienza. Penso che ognuno dovrebbe chiedersi cosa si può fare, per migliorare la situazione, per evitare altri morti in mare, per trovare un punto di equilibrio. Ognuno nel proprio ambito, piccolo o grande che sia. Io, da musicista, ho cercato di stimolare almeno qualche riflessione, impaginando programmi che ci parlano di uomini in viaggio, ognuno con le sue motivazioni, le sue esperienze, le sue fortune o sventure. È poco, è nulla, ma se ognuno di noi spendesse qualche energia per costruire ponti di comprensione reciproca, anziché erigere muri tra i corpi e suscitare odio tra le anime, sicuramente qualcosa poco per volta migliorerebbe.

All’interno della rassegna sono previste anche le prime esecuzioni assolute di lavori di alcuni compositori del nostro tempo. Come si contestualizzano questi brani inediti nei programmi dei concerti?

Sì, e di ciò sono particolarmente fiero: quest’anno ben sette brani scritti apposta per la nostra stagione e per i nostri interpreti. Prima di tutto li voglio elencare: nel concerto inaugurale, il 7 ottobre, la bravissima, ipersensibile Fernanda Damiano ha eseguito Mabrouk, di Sebastiano Cognolato, dedicato alla vittima più inerme di tutti gli inermi periti nel cosiddetto “naufragio dei bambini” dell’11 ottobre 2013, appunto Mabrouk, partorito su un barcone che già iniziava ad affondare e vissuto poco più di 10 minuti. A novembre abbiamo tenuto a battesimo Domenico’s fragments di Carlo Galante, Scarlattiana di Orazio Sciortino (entrambi scritti per la Odd couple pianoforte e chitarra del duo Alberto Chines/Eugenio Della Chiara) e i 3 Frammenti dal balletto Prosthesis di Francesco Libetta, eseguiti dalle magiche mani dello stesso autore. Il 13 gennaio Francesca Bonaita e Andrea Rebaudengo hanno mirabilmente interpretato From the land of the ice and snow di un ispiratissimo Giorgio Colombo Taccani, che ha elaborato alcuni frammenti della Immigrant Song dei Led Zeppelin. Nel prossimo concerto, domenica 27 gennaio, ascolteremo, dalle mani di Alfonso Alberti, un brano di Enrico Intra dedicato al quarantennale della legge Basaglia, con un titolo che è già un’opera d’arte: Enrico Intra riapre le porte dei manicomi chiusi da Franco Basaglia e li riempie non di uomini ma di suono e poesia. Infine, il 3 marzo il Duo formato da Alberto Bologni e Carlo Palese ci farà ascoltare Henry’s Dream di Giovanni Salvemini. Tutta questa nuova musica si integra perfettamente con il resto del repertorio, perché non dobbiamo mai dimenticarci che tutta la musica è stata “contemporanea” quando è stata scritta e, per una sorta di misteriosa sincronicità delle arti performative, torna ad esserlo nel “qui ed ora” di ogni interpretazione. E poi il pubblico è sempre curiosissimo di ascoltare delle “primizie”, anche, perché no, per borbottare di disappunto se il pezzo non dovesse piacere.

Quali sono i prossimi eventi previsti in calendario? Ci può anticipare qualche curiosità?

Questa domenica, 27 gennaio, avremo il Duo clarinetto e pianoforte Selene Framarin/Alfonso Alberti che, oltre al brano di Enrico Intra di cui ho già detto, ci farà ascoltare tante altre rarità, soprattutto contemporanee, in qualche modo connesse con il tema della ricerca di sé: introspezioni, travestimenti, maschere. Per arrivare a quella che è la massima finzione attivabile per trovare il massimo della verosimiglianza: il gioco, come previsto dall’irresistibile Olympia di Roberto Andreoni, in cui gli interpreti devono, mentre suonano, giocare a tennis, nuotare, eccetera, eccetera. In programma anche un omaggio alle celebrazioni del Giorno della Memoria, con una scelta di brani della tradizione klezmer. In febbraio ospiteremo un giovane talento dall’Ucraina, pluripremiato in importanti concorsi internazionali: Roman Lopatinsky, dotato al contempo di animo sensibile, profondità di pensiero e infuocato virtuosismo. In programma alcuni capisaldi del Novecento pianistico, dalla Suite 1922 di Hindemith, ai Tre movimenti di Petrouchka stravinskiani, oltre ai rari Sarcasmi di Sergej Prokofiev e, con mia grande gioia, la Sonata n. 2 di Galina Ustvolskaya, compositrice di impressionante potenza espressiva. Il concerto sarà introdotto da Giorgio Uberti, un giovane storico, anzi “pop historian” come ama definirsi lui per sottolineare l’impronta comunicativa e divulgativa che riesce a dare ai suoi interventi senza mai sacrificarne l’autorevolezza, che ci parlerà delle vicende storiche, per tanti aspetti pericolosamente simili a quelle attuali, degli anni in cui i brani eseguiti furono composti. A marzo chiuderemo la rassegna con due concerti: il 3 il Duo Bologni/Palese con rari brani di Mario Castelnuovo Tedesco, uno dei maggiori talenti del Novecento italiano, mai abbastanza rivalutato. E infine, in collaborazione con il Museo Leoncavallo di Brissago, il Trio Torrello, ensemble cameristico dall’organico molto particolare (voce, flauto e pianoforte), con un programma raffinatissimo dedicato a Ruggero Leoncavallo (di cui ricorre il centenario della morte) e alla sua epoca.

Lei è anche da trent’anni docente in Conservatorio e attualmente insegna al Conservatorio Guido Cantelli di Novara. Le opportunità di ascoltare e fare musica oggigiorno sono molto più numerose e accessibili rispetto al passato. Anche alla luce della sua esperienza di concertista e divulgatore, in che modo si possono attrarre i giovani alla musica classica nonostante i luoghi comuni, che li vedono più orientati su altri linguaggi e forme di intrattenimento?

Eh, questa forse è la domanda più difficile, nel senso che, da un lato, le iscrizioni ai Conservatori non subiscono cali, anzi mi risulta siano in crescita. Dall’altro l’età media del pubblico sembra tendenzialmente piuttosto alta. Vien da pensare che quanto più si abbassa l’età media di chi calca il palcoscenico, tanto più si alza quella di chi sta in sala ad ascoltare. Sicuramente le nuove generazioni tendono a sostituire la presenza in sala da concerto con esperienze attraverso i media, soprattutto Youtube, Spotify o altre piattaforme web (sempre meno attraverso i cd, invece). Ma altrettanto sicuramente non bisogna mai rinunciare a proporre l’esperienza insostituibile dell’ascolto live. Con i miei allievi cerco di insistere molto su quanto siano profondamente diverse, e migliori, le consapevolezze musicali, acustiche, direi persino umane in senso più completo, che si attingono dalla presenza fisica in sala da concerto. E mi piace sempre immaginare che solo mentre siamo partecipi di un evento musicale siamo davvero “canne pensanti”, che per un lasso di tempo, reso in(de)finito dall’incommensurabile flusso della musica, entrano in vibrazione insieme agli strumenti e divengono tutt’uno con l’energia sprigionata dal suono. Insomma, ascoltare dal vivo è un’esperienza, un Erlebnis, un vissuto profondamente formativo e, ripeto, insostituibile. Ma i giovani lo sanno già, si tratta di non scoraggiarli o, peggio, annoiarli con proposte scrause, o con supercazzole filosofeggianti, come sto facendo io in questo momento. E quindi mi fermo.

Immagine Ph. Edith Raamat

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