Assente dalle scene palermitane da trentacinque anni e mai rappresentata al Teatro Massimo, torna in scena a Palermo “Idomeneo, re di Creta” di W. A. Mozart nell’elegantissima messa in scena di Pier Luigi Pizzi pensata per il Teatro delle Muse di Ancona nel 2002. L’ultima presenza di “Idomeneo” nel capoluogo siciliano risale al 1983, rappresentato al Politeama Garibaldi quando il gigantesco cadavere del Teatro Massimo rattristava con la sua aria spettrale, desolata e abbandonata, in balìa di quei cavilli burocratici e malaffari che lentamente ne avevano decretato la morte e il totale oblio. Sono tempi diversi e il Teatro Massimo oggi è diventato tra i più importanti teatri, facendosi largo tra le scene musicali italiane ed europee, ma con un compito in più: colmare il gap di tante assenze in cartellone.
Giovedì 18 aprile è andata quindi in scena l’attesissima e inedita prima di questo capolavoro mozartiano, incentrato sul rapporto conflittuale tra padre e figlio, che rappresenta un punto di svolta nella produzione del compositore salisburghese; ultima delle tre opere serie composte prima del trasferimento a Vienna (dopo Lucio Silla del 1772 e Il re pastore del 1775), costituisce la sintesi dei suoi anni di apprendimento. La versione portata in scena a Palermo è quella del 1780 composta per il Teatro di Corte di Monaco di Baviera, anche se con qualche taglio, tra cui, con grande rammarico, le cinque danze finali (in seguito catalogate come Balletto K367) previste da Mozart alla fine del terzo atto dopo l’incoronazione di Idamante.
Dicevamo di uno spettacolo elegante, che Pizzi basa su un’idea estetica di nitidezza, candore e staticità atte a richiamare l’estrema perfezione e assolutezza greca. La scena è pressoché unica e classicamente spoglia, costituita dallo scorcio simmetrico di un tempio, sostenuto da colonne dal fusto a sezione quadrata, senza base e con capitelli dorici; due scale speculari sistemate ai lati interni e un suggestivo fondale dove dominano le onde bianchissime di un mare gonfio che sembra penetrare, devastante, sulla scena marmorea, rievocando un’eleganza artistica a metà strada tra i raffinati stucchi del Serpotta e la spumeggiante violenza marina di Hokusai.
Scenograficamente quindi poco accade, tutto è iconicamente lineare e austero: rari sono i movimenti delle due colonne centrali, la trasformazione di una delle scale in una sorta di ballatoio e, nell’ultimo atto, un delicato albero fiorito e una scala posta centralmente proiettata verso il mare in tempesta da cui scomparirà Elettra nell’ultimo atto con un gesto che ricorda vagamente il suicidio di Tosca a Castel Sant’Angelo. L’estremo candore della scena costringe lo spettatore a focalizzare l’attenzione sui bellissimi costumi che, con una certa logica attinente all’evoluzione del dramma, variano di atto in atto dal luttuoso nero al bianco nuziale, mentre spiccano il viola della veste di Elettra e il rosso del manto di Idomeneo.
Anche il coro, prevalentemente statico, e la presenza dei soldati nella loro posa caratteristica tipica degli opliti rappresentati nelle ceramiche attiche, rendono ancor più chiaro il richiamo all’estetica della tragedia classica. Eppure in oltre tre ore di spettacolo non si ha mai quella sensazione di stanchezza che certe scenografie fisse e scarne suscitano, merito anche di un efficace lavoro sui movimenti dei protagonisti in scena curato sapientemente da Deda Cristina Colonna. Sul podio, a dirigere l’Orchestra del Teatro Massimo, il giovane Daniel Cohen ha sorpreso per il particolare pathos impresso alla partitura, accentuando il ritmo drammatico e dando un piglio a tratti frenetico che un po’ si scostava dal Mozart classico e rifinito. Toni forse un po’ troppo romantici, ma la lettura non è dispiaciuta.
Eccellente il cast di cantanti di questa prima, con René Barbera che ha interpretato benissimo il ruolo di Idomeneo, anche se con qualche imperfezione nelle colorature, e Aya Wakizono, molto convincente nel ruolo en travesti di Idamante. La giovane mezzosoprano nipponica ha mostrato di possedere un ottimo fraseggio e spiccate doti di interprete.
In merito alle due protagoniste femminili che si contendono l’amore di Idamante c’è da dire che se da un lato Carmela Remigio, nel ruolo di Ilia, è sembrata perfettamente in linea con l’idea di regia elegante e composta, Eleonora Buratto, perfettamente a suo agio nel ruolo di Elettra, è sembrata invece più vicina allo stile interpretativo ed espressivo impostato da Cohen, riuscendo a trasmettere ed esaltare, attraverso le sue doti vocali ed il particolare timbro chiaro e solido, quel necessario pathos. La grande aria del primo atto “Tutte nel cor vi sento” è stato senza dubbio uno dei momenti più apprezzati della serata. La Remigio, voce diversa ma altrettanto efficace, è riuscita invece a sfoggiare perfettamente quel candore vocale raro che è qualità indispensabile per affrontare pagine delicate e raffinate come “Zeffiretti lusinghieri”. A completare il cast c’erano l’ottimo Arbace di Giovanni Sala, il Gran sacerdote di Nettuno interpretato da Carlos Natale, la Voce di Renzo Ran e i troiani e cretesi interpretati da Manuela Ciotto, Gabriella Barresi, Cosimo Diano e Carlo Morgante.
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Immagine Ph. Rosellina Garbo