L’assurdo secondo Kurtág: Fin de partie alla Scala di Milano

in News
  1. Home
  2. News
  3. L’assurdo secondo Kurtág: Fin de partie alla Scala di Milano

Una scatola cubica, e una scala su cui il servitore sale per guardare il paesaggio desolato che lo circonda: ricorda moltissimo l’incisione “Melancholia I” di Dürer la scena concepita da Samuel Beckett per la sua celebre “Fin de partie”, e ripresa nella versione operistica di György Kurtág, andata in scena il 25 novembre 2018, dieci giorni dopo la prima rappresentazione assoluta, nell’ambito del festival Milano Musica.

Nell’efficace allestimento del regista franco-libanese Pierre Audi (con l’apporto del drammaturgo  Klaus Bertisch), concepito per il Teatro alla Scala, in coproduzione con il Ducth National Opera di Amsterdam, tutti gli elementi hanno concorso a ricreare l’universo claustrofobico, statico e immutabile della pièce del drammaturgo irlandese. Sulla scena scarna di Chistof Hetzer, immersa un’atmosfera plumbea e squarciata dalle luci fredde di Urs Schönebaum, interagiscono due coppie di personaggi: da una parte il cieco e paralitico Hamm, «il  re in questa partita a scacchi persa fin dall’inizio» (Beckett), e il suo servitore zoppo Clov, interpretati rispettivamente dal basso-baritono Frode Olsen e dal baritono Leigh Melrose, rivelano la loro assurda interdipendenza e, al tempo stesso, l’impossibilità di comunicare; dall’altra i genitori menomati del padrone di casa, Nell e Nagg, impersonati dal mezzosoprano Hilary Summers e dal tenore buffo Leonardo Cortellazzi, fanno capolino dai bidoni della spazzatura,  ma sono anche i soli ad evocare mondi colorati e caldi, in particolare nell’emozionante dialogo nella “Poubelle” (n. 5).

Gli eccellenti interpreti hanno affrontato la complessa scrittura vocale, particolarmente attenta alla prosodia del testo originale in francese, mantenuto sull’esempio Pelléas et Mélisande (Debussy è considerato, insieme a Musorgkij, tra i modelli compositivi), e alle sfumature del canto, minuziosamente segnalate in partitura e aggiunte dallo stesso Kurtág alle già numerose indicazioni espressive beckettiane.

L’organico inconsueto dell’Orchestra del Teatro alla Scala, affidata alla sensibile direzione di Markus Stenz, per la preminenza dei timbri scuri, la presenza ridotta degli archi, il ricorso a un interessante gruppo di strumenti a corda e a tastiera (cimbalon, arpa, celesta, pianino con supersordino, pianoforte e due bajany, ovvero le fisarmoniche cromatiche della tradizione russa), ha ulteriormente rivelato il «colore quasi bronzeo, scuro ma pieno di riflessi metallici» (Gianluigi Mattietti) di una straordinaria traduzione musicale del angoscioso, privo di speranza e sarcastico “finale di partita”.

Ne è scaturita un’affascinante ed emozionante prima opera, a tratti commovente, tragica e nel contempo ironica: un’opera organica, malgrado il sofferto lavorio che l’ha originata e nonostante la la frammentarietà stessa del libretto, in un atto ma strutturato in “scènes et monologues“, di un “giovane” compositore novantenne che ha saputo cogliere e rigenerare la sconcertante causticità, sempre attuale, di uno dei capisaldi del teatro novecentesco.

Immagine di copertina Ph. Ruth Walz

Il vincitore di Amadeus Factory 2018 è il pianista David Irimescu
Il canto epico del Kosovo alla Fondazione Giorgio Cini

Potrebbe interessarti anche

Menu