Fra il 31 ottobre e il 1 novembre, la compositrice americano-israeliana Chaya Czernowin si dividerà tra vari appunti che la vedranno protagonista nella città di Milano.
Walter Bigelow Rosen Professor of Music presso l’Università di Harvard, Chaya Czernowin è sicuramente uno fra i più importanti punti di riferimento delle giovani generazioni di compositori. Sebbene la sua musica sia regolarmente programmata nelle più prestigiose sedi europee – risale a non molti giorni fa la prima di Guardian, per violoncello e grande orchestra, presso il festival di Donaueschingen – è ancora poco conosciuta in Italia. Invitata da mdi ensemble, che riconferma che riconferma la volontà di ampliare l’offerta musicale contemporanea con nuovi nomi, Chaya Czernowin terrà una masterclass di composizione per Sound of Wander e sarà la protagonista, insieme a R. Platz, di un concerto presso il Music Hub alla Fabbrica del Vapore, nell’ambito della rassegna Four Sketches (31 ottobre, ore 21.00). Sempre il 31 ottobre poi, Chaya Czernowin sarà inoltre impegnata in un seminario presso il conservatorio milanese Giuseppe Verdi (10.30-12.00) intitolato “The Slow, the Strange and the Unseen”. L’ho incontrata oggi per condividere con il pubblico italiano alcuni dei suoi pensieri in fatto di insegnamento, composizione, ma anche immaginazione, empatia.
I titoli delle tue opere almeno fino ad una decina di anni fa rivelano un forte interesse per il mondo naturale – dai singoli elementi (acqua, aria, terra) alle concrezioni materiche dei cristalli. La tua musica suggerisce uno sguardo alla materia che definirei pre, o forse post-umano, un distillato che parrebbe quasi scientifico ma allo stesso tempo intriso d’immaginazione. Ti ritrovi in queste categorie?
La tua è una domanda molto acuta e che tocca davvero il cuore della questione. Le categorie cui faccio riferimento sono infatti tre: pre-umano, post-umano e ciò che sta nel mezzo. Il concetto di pre-umano descrive infatti alla perfezione il mio lavoro degli anni ’90, un periodo in cui facevo molto uso dell’improvvisazione. Tentavo continuamente di capire come ciò che viene considerato ‘musicale’ potesse venire in luce, esplorandone le tecniche di realizzazione e mostrando la fisicità della musica: è da qui che deriva il mio interesse per il gesto. Insomma, vi era la volontà di presentare il materiale nella sua forma più cruda, in quella fase che ne precede la formalizzazione, la verbalizzazione o addirittura la sua sublimazione: prima che una qualche categoria lo metta sotto controllo. Volevo lasciarlo nel suo stato vitale. Dall’altro lato, invece, il concetto di post-umano rende il senso dei sedimenti di quanto rimane: l’energia che resta nell’aria di una stanza in cui viveva qualcuno, la sensazione strana che si prova nel sentire l’odore di ciò che è stato. È difficile da definire, perché non si tratta di una sostanza fisica. Il pre-umano per me è grottesco, crudo, esagerato. Il post-umano è invece sublimazione. È ciò che è ormai troppo flebile per essere ascoltato, è sedimento del già stato in un unico complesso troppo denso per entrarvi.
In che senso definisci grottesco il pre-umano?
Quando lavoravo in quel modo, il mio approccio era di tipo psicologico. C’era qualcosa che volevo vedere e volevo vederlo vicinissimo [si mette una mano davanti agli occhi, ndr.] così da coglierne ogni imperfezione. E queste imperfezioni venivano esagerate fino all’assurdo. Un amore per il grottesco, l’eccentrico, ciò che è privo di regole; una sorta di paradigma tratto dall’estetica di Bosch. Un altro movimento estetico a cui lo posso associare per aiutare la comprensione è quello espressionista, mentre invece il post-umano si ricollega, a mio parere, all’impressionismo. Penso al Debussy di Pelléas e Mélisande, ad esempio, ma anche alla musica di Ockeghem.
In che modo si manifesta per te in Ockeghem?
Percepisco in Ockeghem un’organizzazione estrema ma, tuttavia, appare privo di una logica spiegabile. Mi dà come una fortissima impressione di ordine accompagnata dalla chiara sensazione di inaspettato, dell’imprevedibile che verrà. Non so davvero come abbia fatto.
Pensando al Pelléas, mi torna alla mente come Debussy crei l’aspettativa che un dato evento si riveli causa di qualcosa che verrà. Solo alla fine realizziamo che non ha portato a nulla, rimane in sospeso. La logica del suo apparire rimane inspiegabile.
Esattamente. In un certo senso, almeno fino a non molto tempo fa, ho sempre avuto una sorta di resistenza per quello che vi è nel mezzo, quello che io chiamo un “dato di fatto” [a matter of fact, ndr.]. Per me questo ‘dato di fatto’ è oggettivo, è quello sguardo sul mondo che ha come proprio risultato il poter pensare che quanto ti circonda è semplicemente ciò che è, un oggetto privo di relazione. Eppure, recentemente, proprio questa è diventata una delle strade da cui ho voluto imparare e da cui forse imparerò nel futuro.
E hai cercato di evitarlo in passato…
C’è qualcosa dentro di me che si oppone a creare dati di fatto. Quello che creo ha sempre la necessità di essere in qualche modo remoto, per lasciare spazio alla speculazione. Speculare per me equivale a rischiare, ne sento il bisogno, e i dati di fatto non me lo permettono.
Come si manifesta questa tua necessità quando insegni?
Come insegnante non ho preferenze: se qualcuno nella sua musica cerca il ‘dato di fatto’, non sarò io a fermarlo.
Te lo chiedo perché, ascoltando i tuoi interventi ai colloqui tra compositori ad Harvard, ho sempre percepito un accento sull’immaginazione. I dati di fatto non sembrano lasciare molto spazio all’immaginazione…
Ma immagina che uno studente mi dica: “Ma questa è la cosa più importante in assoluto per me!”, a quel punto non posso che aiutarlo a farlo diventare il suo punto di forza, così forte da diventare esso stesso immaginazione a suo modo. Il problema è quando questa scelta è il risultato di una mancanza di riflessione. La maggior parte delle volte ci si appoggia su dati di fatto semplicemente perché ancora non si sa ancora cosa si ama. Quando insegno, la domanda per me è molto semplice: c’è o non c’è un orizzonte? E se c’è, quale aria si respira? Respirando quest’aria è possibile crescere o la crescita si fermerà? Se crea blocchi, è necessario capire il perché, da dove derivi la restrizione. Questa domanda può generare tantissime risposte, e quindi altrettante direzioni verso cui cambiare la rotta. Sviscerare queste possibili direzioni e ciò che faccio con i miei studenti.
Nel tuo modo di insegnare ricorre un’attenzione agli aspetti psicologici che intervengono nell’atto compositivo.
Sì, e quest’attenzione la rivolgo anche a me stessa. Compongo in modo estremamente intuitivo pur mantenendo questo sguardo analitico a fianco. Devo essere conscia di ciò di cui ho bisogno, e cerco di divenirne conscia al massimo delle mie possibilità.
Accennavi prima alla tua ultima opera, Infinite Now. In un’intervista l’hai definita come uno “stato di nudità esistenziale dove il senso ordinario di controllo e ragione vengono rimossi”. Se il tuo lavoro strumentale è spesso stato descritto come “pre-verbale”, in questo lavoro, la verbalizzazione è invece pervasiva. Possiamo dire che qui controllo e ragione siano ‘rimossi’ proprio attraverso le parole?
È una domanda interessante perché il testo di Infinite Now è relativamente ridotto: saranno circa sei, sette pagine. Eppure non sei la prima persona a sottolineare l’impatto che il testo ha nell’economia dell’opera. Credo che abbia un certo peso specifico perché appare in blocchi isolati. Tuttavia, il testo non ha lo scopo di condurti in questo o quel luogo; in questo senso riesce a ricreare quel senso di nudità esistenziale. Direi, piuttosto, che la funzione delle parole è quella di lasciare che sia la musica a dirigerti.
Che relazioni avevi con le parole nei tuoi lavori passati?
Nella mia prima opera [Pnima… Inwards, 1999] non vi era testo, solo vocalismi. Ero esattamente sul margine opposto dello spettro. Credo che si debba ricorrere, ancora una volta, alle nostre categorie iniziali: il pre-umano e il post-umano. Nella mia prima opera la mancanza di parole lasciava tutto lo spazio ad una riflessione sulle emozioni, emozioni che venivano esasperate. Nel post-umano di Infinite Now le parole sono residui, sedimenti, aggregate in modo da annullare l’importanza del loro significato. Per questo non è necessario che il pubblico comprenda l’intero testo [il testo è in diverse lingue, ndr.], piuttosto è invitato ad esperirne il suono.
Anche nella tua musica strumentale recente si notano molti cambiamenti rispetto al passato. Uno dei brani che verrà suonato il 31 ottobre da mdi ensemble, Ayre: Towed, si allontana da quell’esplorazione di processi in divenire che caratterizzava lavori precedenti; pare piuttosto di partecipare all’esplorazione di uno spazio statico.
Sì, credo che la differenza sia dovuta al fatto che in questo pezzo ho cercato per la prima volta di focalizzarmi maggiormente su quanto ho chiamato il “dato di fatto”, dove quello che ascolti è ciò che ne trai, non vi è spazio per le speculazioni. È un brano molto concreto in relazione alla percezione. Si basa su procedimenti basilari, come la ripetizione e la costruzione di blocchi di suono che nella loro verticalità creano oggetti assolutamente riconoscibili. Non vi sono strutture nascoste nella partitura che non possano essere effettivamente percepite. Ho cercato di far emergere tutto quello che creavo a livello di suono. La definirei come una scultura, né una premonizione dunque, né un sedimento, piuttosto pura attualità.
Da dove derivava questo bisogno?
Mi stavo preparando all’opera e volevo essere in grado di presentare questo tipo di luoghi “concreti”. Ti faccio un esempio molto semplice. Nel quinto atto dell’opera, è possibile ascoltare questo vento potentissimo, ed è proprio questo che volevo che fosse: vento, nient’altro. Sì, dopo diviene surreale, viene trasformato, ma nasce dalla mia volontà di creare, attraverso il suono, il vento: uno studio di come, in natura, il vento si comporti, funzioni. In Ayre mi esercitavo a questo scopo.
Nella tua poetica vi è un interesse ricorrente per l’esplorazione di spazi liminali. Compositivamente parlando, crei un’identità esplorando “quanta differenziazione può aver luogo prima che [un’identità] inizi a lacerarsi e, tutt’a un tratto, ci si ritrovi con più di un’identità”. Mi pare sia il bisogno di toccare, o addirittura superare, la linea di confine che definisce qualcosa per essere capace di riconoscerla. In che modo l’ascoltatore viene coinvolto in questo procedimento?
Sì, è esattamente come dici; tuttavia, non focalizzo la mia intenzione sull’ascoltatore; lo faccio per me stessa e credo che si verifichi quanto accade in ogni relazione: se fai nascere qualcosa in modo genuino dentro di te e poi lo fai diventare parte della relazione ci sono buone probabilità che l’altra persona reagisca sulla stessa lunghezza d’onda. E lo stesso accade in musica: più rischio, più sono vicina ai miei stessi limiti, più coraggio ci metto – senza provare vergogna o essere arrogante, ma semplicemente esperendo quanto per me è necessario – tanto più tutto questo sarà percepito dall’ascoltatore. In confronto, la maestria con cui si esprime qualcosa non è così importante. Per me l’importante è ciò su cui si fonda la maestra dell’artista. Ecco perché ho questo bisogno di analizzare gli aspetti nel fare arte; spesso la gente sottovaluta quest’aspetto. Vedo compositori di enorme talento rimanere intrappolati da certi tratti caratteriali che non gli permettono di esprimersi liberamente. Per esempio, se ho un irrinunciabile bisogno di stare al centro dell’attenzione, la musica che creo sarà altrettanto dipendente da questo bisogno. Rifletterà il terrore che ho di perdere l’attenzione dell’ascoltatore. E questi aspetti sono oggetto di riflessione anche quando insegno.
Oltre ad essere professore di Composizione ad Harvard, ti occupi in prima persona della direzione artistica di diverse accademie estive (per esempio quella a Schloss Solitude, l’Harvard Summer Composition Institute, Tzlil Meudcan etc.). È evidente che l’insegnamento ha un ruolo enorme nella tua carriera artistica.
Con uno studente cerco di far sì che tutto il suo talento si sviluppi nella sua persona appoggiandosi ad una base salutare. Alcune persone, ad esempio, hanno l’ossessione di giustificare tutto nella loro musica, come se ci fosse una morale nascosta dentro di loro ad obbligarli a farlo. Ancor prima di aver iniziato a comporre devono poter giustificare: la mia musica dev’essere A, B, C, D … Quindi, se dovessi lavorare con qualcuno che ha questa tendenza proverei ad aiutarlo a fare pace con questa sua parte. Se invece questa persona crede veramente che quel tratto sia quanto di più importante esiste, a quel punto dev’esserne completamente conscia e su quella base deve riuscire a costruirvi un mondo. Il punto è: quanto è davvero essenziale alla tua creatività, quanto invece è una paura che ti tiene intrappolato?
Mi sembra di intuire che insegnare per te non sia un’attività come un’altra ma un vero e proprio bisogno. Che cosa cerchi nel rapporto con lo studente?
Sì, è certamente un bisogno. Sai, avrò presto sessant’anni, ed è molto facile a questo punto convincersi di sapere cos’è giusto, cos’è sbagliato. Eppure, io continuo ad avvertire il rischio di una simile attitudine. Credo che sia fondamentale non perdere il contatto con il modo di pensare altrui, perché è quanto ti permette di accorgerti quanto del nostro modo di pensare si è fermato, e sta dunque invecchiando. Mantenere il contatto con le generazioni più giovani, vedere come compongono, mi porta spesso a provare irritazione di fronte a ciò che non soddisfa le mie aspettative circa il modo “corretto di fare le cose”. Ma è proprio quest’irritazione ad essere benvenuta.
Intendi dire che quando qualcosa ti irrita rivela una tua resistenza, un tuo limite, di cui così puoi renderti conscia?
Esattamente, ed è proprio per questo motivo che dicevo è benvenuta. Non accade con qualunque studente, piuttosto con quelli con cui costruisco un legame speciale, ad esempio quelli con cui lavoro ad Harvard: in quel caso ci è uno scambio fertile da entrambe le parti. Certo, un giovane artista è ancora nella fase in cui cerca di sviluppare il proprio mondo ma, mentre lo fa, già offre una prospettiva che magari non avevo mai esplorato nel mio lavoro. È un’ispirazione continua.
Credo che questo punto si connetta alla mia domanda precedente, quando parlavamo di come toccare le linee di confine porti a conoscere un’identità: mi pare vi operi lo stesso principio. Quando qualcosa fa risuonare una tua resistenza, un tuo limite, lo rivela, e ti permette così di divenire più conscia della tua identità e allo stesso momento di espanderla.
È esattamente questo il punto. Quando nel dialogo con uno studente qualcosa crea una frizione, può portare a irritazione, rifiuto, ma può essere che in un secondo momento io comprenda perché quell’elemento sia così importante per loro. Arrivo a capire perché gli sia necessario andare in quella direzione, oltrepassare i limiti di ciò che per me era confortevole: in quel momento ho guadagnato qualcosa. Quand’ero molto piccola, lessi un libro che mi ha particolarmente segnato. Parlava di un albero. Una volta che se ne mangiavano i frutti, non solo si poteva ascoltare che cosa una persona aveva da dire, ma si poteva anche comprenderne il perché, da cosa fosse mossa, e in vista di che cosa venissero quelle parole. Un albero dell’empatia. Empatia, pensata in questo senso, è allora uno strumento compositivo meraviglioso e potentissimo. Una volta che si è davvero compresa la complessità, la ricchezza di una posizione, l’hai guadagnata, l’hai fatta tua. Sei altro rispetto ad un momento fa.