Il pianista bolzanino Enrico Pompili non è dei più noti nel panorama italiano, ma il suo nome è giustamente apprezzato tra gli intenditori.
Allievo di Andrea Bambace presso il Conservatorio di Bolzano e in seguito dell’Accademia “Incontri col Maestro” di Imola, ha vinto numerosi premi, tra cui il Secondo Premio all’Hamamatsu. Ciononostante la sua non è stata una carriera di quelle folgoranti, che però negli ultimi anni lo ha visto regolarmente invitato dalle Serate Musicali di Milano. Ospite dello Steinway Piano Festival presso Cremona Musica 2017, dove ha tenuto uno splendido recital, l’ho intervisto sul suo particolare percorso.
Nonostante i premi vinti in numerosi concorsi, hai fatto delle scelte particolari di carriera, che non ti hanno mai visto in prima linea sul piano internazionale. Perché?
È curioso, anch’io me lo sto chiedendo! (Ride) Ogni tanto ci penso, cercando di capire quella che è la mia storia. Quando ho iniziato a suonare non volevo fare carriera, volevo fare il pianista. Le due cose dovrebbero essere in sintonia, ma sentivo che il concetto di carriera non mi appartenesse. Quando poi ho studiato ad Imola, in particolare con Scala, questo mi ha aperto ad una libertà espressiva molto grande e mi ha permesso di capire come utilizzare il mio materiale, come saperlo tirar fuori. Il momento in cui lo capisci, nasce anche il desiderio di metterlo in pratica e di metterti in gioco. A questo è seguito un periodo di forte entusiasmo, nel quale partecipavo a molti concorsi e lo facevo con la certezza che sarebbero andati bene perché sapevo di avere qualcosa da dare. Poi non so bene cosa sia successo, forse per ingenuità ho pensato che la cosa andasse avanti da sola. Avevo vinto diversi concorsi, avevo tante porte aperte. Ma non le ho mai utilizzate quelle porte, forse perché credevo che sarebbe bastato averle già aperte e le cose sarebbero andate a posto. Tra l’altro io sono una persona piuttosto timida, quando ho visto che le porte cominciavano a chiudersi, per il semplice fatto di essere rimasto un po’ immobile, non ho avuto il coraggio e la forza di metterci la faccia e riaprirle. È stato un periodo molto lungo, parlo di penso vent’anni. Fino ad adesso.
Ora credi che questo sia cambiato?
Ho sempre pensato di avere qualcosa da dare, quindi ad un certo punto mi son detto che non era bene rimanermene in disparte: se ho qualcosa da dare non posso tenerlo nascosto. Da un po’ di tempo a questa parte ho maturato il desiderio di rientrare e ho ricominciato a mettermi in gioco, un’esperienza difficile per me. All’inizio della mia carriera era più facile perché erano altri a spingermi, ma per me questa è una zona di nuova maturità. Ringrazio per questo anche Roberto Prosseda e molti altri, che hanno creduto in me e continuano a farlo.
Quali sono i tuoi piani futuri, dunque?
Ristrutturare non è facile. Chiaro, ho abbastanza repertorio, il che non è male, ma va ampliato e ovviamente va proposto con intelligenza. Ho un po’ di date davanti e voglio giocarmele bene.
Che cosa del tu repertorio ti sembra importante nella tua visione artistica e cosa vorresti aggiungere?
Sicuramente l’esperienza musicale che dal ‘900 che sfocia nel contemporaneo è la parte che più mi si addice, i ncui trovo più possibilità di espressione. Forse perché richiede più immaginazione e c’è meno storia dell’interpretazione dietro! Il repertorio del 900 mi dà la libertà di mettermi in gioco completamente, non rifacendomi troppo ad esperienze altrui: sicuramente questo va ampliato. Autori a me molto cari sono Ravel e Messiaen, di cui ho eseguito tutti i Vingt regards sur l’enfant-Jésus, un lavoro molto impegnativo. Quella è un’opera che sicuramente voglio proporre. È difficile poi pensare ad un autore da approfondire, in genere mi ci imbatto per caso. Non sono nemmeno uno troppo da grandi progetti, escluso quello di Messiaen. Ma ci terrei, in quanto percorso importantissimo, a studiare profondamente le 32 Sonate di Beethoven. È un progetto che non mi interessa tanto come proposta concertistica, ma come esperienza personale di approfondimento, per entrare nella vita di un compositore come Beethoven, la cui importanza non può essere ignorata. Che poi qualche concerto ne può sicuramente scaturire, ma aborrisco un po’ le integrali! (Ride) Ho fatto un’eccezione per Messiaen perché i Vingt regards sono un’esperienza unica, che può andare molto bene o molto male, può essere pesantissimo, ma anche straordinario. E per me ne vale davvero la pena.