La Gustav Malher Jugendorchester ha concluso una prolifica residenza d’artista in Friuli Venezia Giulia con un memorabile concerto al Teatro Verdi di Pordenone, primo ente promotore di una importante iniziativa che ha portato l’orchestra giovanile più famosa e riconosciuta al mondo – fondata trent’anni fa da Claudio Abbado –, alla realizzazione di una serie fortunatissima di concerti in Friuli nei mesi di agosto e settembre.
Un ampio progetto denominato “Summer Tour” che ha visto la GMJO esibirsi in importanti sedi europee come il Festival di Salisurgo, il Festival Bozen, alla Konzerthaus di Berlino, al Semperoper di Dresda, all’Elbphilharmonie di Amburgo, a Praga, Bonn e al Teatro alla Scala di Milano. Nella regione friulana la loro residenza ha visto la partecipazione di 120 giovani professori d’orchestra, tra i 15 e 25 anni, assieme agli ottimi direttori d’orchestra Lorenzo Viotti e Ingo Metzmacher e all’eccellente pianista Jean-Yves Thibaudet. Dopo i concerti agostani da tutto esaurito a Pordenone, Aquileia e a Tolmezzo per il Festival Carniarmonie, la grande compagine ha chiuso giovedì 7 settembre al Teatro Verdi di Pordenone con l’esecuzione di un’opera che è raro ascoltare, con molta probabilità la prima esecuzione in Friuli Venezia Giulia.
Un capolavoro tanto pregnante quanto complesso: Turangalîla Symphonie di Oliver Messiaen. Un grande polittico sonoro composto da dieci quadri, una partitura colossale di 429 pagine che coinvolge oltre centro strumentisti, con la presenza del pianoforte e di un insolito strumento, l’Ondes Martenot, una tastiera analogica monofonica nata nel 1823 su invenzione di Maurice Martenot, dal suono ancestrale.
“Canto d’amore”, “Inno alla gioia” sono le traduzioni più vicine al senso del titolo in sanscrito di questo ardito capolavoro cosmico, sovrumano, totalizzante, composto tra il 1946 e il 1948 per essere rivisto nel 1990, a due anni dalla morte del compositore.
Un lavoro immenso, spaventosamente complesso nella sua architettura multiforme, sorprendente nelle rese agogighe, negli effetti timbrici e armonici in particolare. Un caleidoscopio sonoro d’inesauribili luci e pose che non ammette la pur minima distrazione esecutiva – così dovrebbe essere per tutte le composizioni, è vero, ma in questo caso è un assioma – per oltre 80 minuti di musica suddivisa in dieci movimenti in cui il concetto e il sentimento d’amore si diradano nel “canto”, nel “sangue delle stelle”, nel “giardino del sogno”, nello “sviluppo” del suo sentimento e nel “Turangalîla” che appare in tre grandi sezioni.
Questo riprendendo i titoli dei dieci tempi, per un romanzo di suoni gigantesco, una saga titanica, basata su continue modifiche e variazioni di una sequenza base, dove l’irregolarità e l’asimmetria ritmica, fusa ad impasti sonori dagli esiti stupefacenti ed a costruzioni armoniche al limite dell’atonalità, pur strutturate su trame melodiche di sicura persuasione, concorrono a concepire «i segni distintivi di ogni civiltà non come barriere, ma come possibili collegamenti». Così scrisse Boulez a proposito dell’opera di Messiaen.
La bacchetta di un irreprensibile Ingo Metzmacher, impeccabile la sua precisione e la dovuta intransigenza da non ammette mai e poi mai la pur minima, sottile titubanza, unito ad un luminosissimo Jean-Yves Thibaudet che si è dimostrato ancora una volta una divinità assoluta degli ottantotto tasti, e della “ondista” Valerie Hartmann-Claverie, la migliore al mondo su questo strumento (eccome lo si è percepito), ha tenuto il numerosissimo pubblico incollato alla poltrona con le orecchie attente e tese a questo paradisiaco lavoro di Messiaen.
La grande orchestra, grande nei numeri e nella qualità, ha dimostrato tutta la sua intesa, per cui ogni elemento è stato al contempo solista ed ensemble per un risultato estetico salvifico e vitale. Solo dopo l’ultima nota, e lunghi sospiri di meraviglia, il pubblico si è prodigato in un lunghissimo applauso durato diversi minuti, a glorificare l’impresa colossale di questa orchestra che pur giovane dimostra possedere un’indubbia maturità.