Non ho mai scritto su Amadeus e, intimorito, inizio a parlare di Jeanne Moreau, di cui siamo orfani dalle 7.30 di lunedì 31 luglio (nello stesso giorno in cui se ne è andato anche Sam Shepard), come cantante, dato che ha inciso addirittura due album.
Perché è vero, ci fu un momento liceale in cui andava molto di moda il 45 giri di “Le tourbillon” che lei cantava allegra tra i suoi due amori nel film del suo Pigmalione Truffaut che l’ha resa famosa in Italia, “Jules e Jim” (record di tenitura milanese all’ex cinema d’essai Ritz di via Torino, oggi ovviamente una banca). Una corsa nella vita e nelle sue utopie sentimentali.
È stata una icona della nouvelle vague, l’hanno detto tutti ma il mondo è quello che è ed anche il cinema: la verità la vuole amata da quella generazione di registi francesi che a cavallo degli anni 60 trasformarono la nozione di autore facendo passare Hitchcock da mago del brivido a Maestro. Adorata non solo dal “suo” Truffaut ma anche dal “suo” Louis Malle (4 titoli compreso un inutile “Viva Maria!” con la Bardot), un po’ snobbata ma con deferenza da Godard che le faceva fare apparizioni non accreditate per non tradire la “sua” Karina, la Moreau ha raggiunto presto la statura di un mito francese ed europeo.
Aveva iniziato in palcoscenico come si addice alle attrici vere e di temperamento: trafila classica di Conservatorio, Comedie e Théâtre National Populaire di Vilar. I suoi primi successi sono in contraddizione, da una parte “I sotterranei del Vaticano” di Gide e dall’altra “La gatta sul tetto che scotta” del suo amico Tennessee Williams (rapporto condiviso con Anna Magnani e non è l’unica cosa che le accomuna umanamente, come slancio).
Era stata molto bella, ma andando pian piano verso gli 89 contro il cui spigolo si è bloccata, miss Moreau – ci teneva al mademoiselle dato che i due matrimoni, di cui uno col regista americano Friedkin, erano finiti in fretta – è ingrossata ma tenendo uno spirito di amicizia negli occhi: ogni volta portava con sé tutta la sua carriera.
La verità è che fu subito adottata. Intanto perché aveva ufficializzato il mènage a trois (pochi ricordano che non c’è lieto fine in “Jules e Jim” ma basta l’idea) e poi perché aveva anticipato quel po’ di scandalo sessuale che il 68 con i suoi “dreamers” liberalizzò: alla Mostra di Venezia fece accapponare la pelle al patriarca con “Les amants” di Malle (ma il povero religioso non aveva ancora visto “I diavoli” di Ken Russell). Oggi è un film per educande, per venerdì santo. E poi in “Ascensore per il patibolo” era stata, sempre col suo partner storico, Maurice Ronet (fra loro c’è anche un “Fuoco fatuo”), e la tromba di Miles Davis, al centro di un intrigo, come poi nella “Sposa in nero”.
Molti di questi personaggi hanno una solida radice letteraria. I registi che l’hanno adorata hanno almeno fatto tris con lei: Orson Welles l’ha voluta in “Falstaff”, “Storia immortale”, “Il processo”, ed anche l’oggi dimenticato grandissimo Joseph Losey la immortalò in “La trota”, “Mr. Klein” ma soprattutto nel barocchissimo “Eva” girato con Albertazzi a Venezia, epoca post Marienbad.
Comunque la lista della spesa è impossibile: la Moreau è stata in locandina in oltre 100 film e ne ha anche diretti due, storie di donne complici, due stellette e mezzo. Col tempo è diventata idolo del pubblico, specie target gay, come la Piaf, Barbara eccetera ma la curiosità umana cinematografica le ha permesso molti giri del mondo, storia e geografia. In America non era in sintonia ma avviò alcune avventure tra “Il treno” con Burt Lancaster, di Frankenheimer, sulle opere d’arte trafugate in guerra da tedeschi. Poi mentre invecchiava, si ingrossava e si intristiva, ecco arrivare Tony Richardson (che fu un periodo “suo”), i tedeschi nouvelle vague Wenders e Fassbinder (“Querelle”, ovvio) Anghelopoulos e De Olivera, trionfo di piani sequenza e di cinema d’essai.
Ma non aveva mai rinunciato a niente, cominciando con le “Liaisons” pericolose di Vadim fino ad addestrare la mini killer di “Nikita” e a diventare la rugosa nonna con cui piange il nipotino del “Tempo che resta” di Ozon.
Doppiata da noi, quando il doppiaggio era d’essai, da attrici di serie A (voci vellutate di Pagnani, Morelli, Valeria Valeri, la Occhini), Moreau è stata anche ricoperta di premi, di Cèsar, di Orsi, Leoni d’oro e Palme, dirigendo per due volte la giuria di Cannes (dove vinse nel ’60 per “Moderato cantabile” di Peter Brook, non ne ha mancato uno…) record per una donna.
Tanti volti, un’umanità che andava fuori anche dai grandi formati cinemascopici e anche qualche esperienza italiana (di recente un film di Andò con cui si adorava), di cui massima memoria si conserva però nella “Notte” di Antonioni, 1961, secondo capitolo della così detta trilogia dell’incomunicabilità che poi invece comunicava benissimo. Era la moglie di Mastroianni, una escalation di delusioni fino alla famosa lettera del celebre finale con l’alba brianzola, così come fu di culto per i milanesi la sua passeggiatina dallo studio Bompiani (dove si vedono il conte Valentino ed anche il giovane Eco) fino a Sesto san Giovanni come se nulla fosse, col battito dei tacchi alti. Si sa che non fu idillio col maestro ferrarese.
A Milano tornò nell’87 per il 40mo compleanno del Piccolo Teatro: Strehler la volle con la “Zerlina” un testo di Hermann Broch messo in scena da Gruber, storia di una serva e del suo ancillare amore, così come gli stessi patimenti li aveva già subiti e denunciati nel capolavoro di Luis Buñuel “Diario di una cameriera”, anch’esso con pater letterario Octave Mirabeau.