#Jazz Ravi Shankar 100 anni dopo: l’odore dell’India tra jazz e pop

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L’odore dell’India: così lo chiamava Pier Paolo Pasolini in un illuminante reportage dedicato a Calcutta, Bombay e dintorni. Per noi appassionati di musica, invece, l’India è soprattutto un modo di suonare e concepire le note.

Pensiamo all’artista-simbolo del subcontinente, Ravi Shankar. Causa lockdown, è passato sotto silenzio il centenario della sua nascita. E tuttavia arriva provvidenziale Ravi Shankar Edition, un cofanetto di cinque cd (Warner Classics): uno scrigno di meraviglie che ne documenta le collaborazioni con musicisti accademici suoi compatrioti e non solo (Zubin Mehta, André Previn e altri) e ne riprende pure le migliori performance legate alla tradizione raga (insieme a lui i maestri di tabla Alla Rakha e Zakir Hussain).

«Ho solo aperto le porte dell’Occidente alla nostra musica», era solito dire con l’understatement proprio dei grandi il gigante del sitar. Una rivoluzione, la sua, che ha influenzato i Beatles (r.s.v.p. George Harrison), la scena minimalista (Philip Glass) e il jazz, da John Coltrane in avanti. Alla schiera degli artisti che hanno saputo coniugare swing e India appartiene Trilok Gurtu, percussionista e batterista di Bombay che spesso ha incrociato artisti della musica improvvisata, da Charlie Mariano a John McLaughlin, da Jan Garbarek a Joe Zawinul. E proprio con un omaggio al pianista e tastierista prende l’abbrivio God Is a Drummer (Jazzline, distribuito da Ird): nel primo brano in scaletta, Joseph Erich, rivive l’estetica fusion che animava la poetica del fondatore dei Weather Report. Ma anche il resto del disco vale col suo sound vitale, esuberante, ricco di spezie e ritmi, all’incrocio tra Oriente e Occidente. La definizione “barman di suoni” (copyright: Jean Cocteau) ben si addice a Guru.

È un’India più filtrata e intellettuale quella di Oden Tazur. Prima di tutto perché lui è un giovane sassofonista tenore israeliano e, a un primo sguardo, sembrerebbe aver ben poca affinità con quella cultura. Ma il nostro ha studiato con il maestro indiano Hariprasad Chaurasia  e si sente. E nel raffinatissimo progetto Ecm Here Be Dragons (distribuito dalla Ducale) fonde improvvisazione jazzistica e raga. Suonare piano, pensare molto, fare lunghe pause: ecco il suo mantra. Quello di Tazur è un disco di una bellezza antica e ammaliante. Tra i migliori di questo strano anno.

Oltre a una figlia che porta il suo cognome – Anoushka – e suona il suo stesso strumento, Ravi Shankar ha una figliastra iper famosa: Norah Jones. Sono passati diciott’anni da quando l’ex ragazzina di Brooklyn ha debuttato: con oltre venti milioni di copie, il suo suadente esordio Come Away with Me è un blockbuster. Timbro carezzevole e dal retrogusto increspato, la Jones pareva aver trovato nella semplicità della formula piano-basso-batteria-voce la ricetta alchemica del successo. Ora, al suo settimo album – Pick Me Up off the Floor (Blue Note, distribuzione Universal) – la pianista e vocalist cambia registro e ci regala l’opera più complessa e, a tratti, dolorosa. Un mix di blues e soul, americana, jazz e folk con echi gospel. In I’m Alive, densa di echi alternative country, si fa aiutare da Jeff Tweedy dei Wilco, il gruppo preferito dal (purtroppo) ex presidente degli States, Obama; mentre in This Life Norah ci racconta che nulla sarà più come prima («Questa vita come la conosciamo / è finita»). Insomma, per la Jones questo è il disco della consapevolezza – amara ma non solo – scritto prima dell’emergenza sanitaria. E, ascoltato oggi, fotografa lo stato delle cose. Perché, come si sa, spesso l’arte anticipa la vita.

Ivo Franchi

 

foto © Carolyn Jones licensed to Warner Classics

 

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