Intervista a Kudsi Erguner: la musica divina

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Ormai da diversi anni, la Laguna di Venezia accoglie le tradizioni musicali che soffiano da oriente, declinando in melodie storie millenarie e lingue antiche: nella fattispecie, è l’ensemble Bîrûn ad approdare qui ancora una volta, sotto la direzione artistica del maestro Kudsi Erguner.

Attualmente Erguner è infatti impegnato in un ciclo di seminari di musica ottomana presso l’Istituto di Studi Musicali Comparati della Fondazione Cini, incontri che, per questa edizione, affrontano la musica dei Bektashi, una confraternita sufi originaria dell’odierno Iran nordorientale. Si parla, in modo particolare, di Nefles, un genere musicale e letterario che letteralmente può essere tradotto in “soffi di ispirazione divina”. Al termine dei lavori, maestro ed ensemble si esibiranno in un concerto aperto al pubblico, per ascoltare con orecchie e anima queste tradizioni dal valore inestimabile.

Nasce proprio da tutto ciò una conversazione con il musicista, noto anche per essere uno dei più virtuosi suonatori di flauto ney al mondo e appassionato studioso. Erguner racconta così dell’impegno firmato Bîrûn, di come l’antica tradizione del flauto ney sia più che mai attuale e, soprattutto, di come la musica non conosca confini e possa cambiare, se non il mondo, forse ogni uomo disposto ad ascoltarla.

Maestro, la sua collaborazione con la Fondazione Cini è attiva da molti anni. Come sono scelti temi delle masterclass e repertori per i concerti aperti a tutti?

«È un onore e una grande opportunità lavorare per la Fondazione Giorgio Cini e l’Istituto Interculturale di Studi Musicali Comparati. Quest’anno siamo alla settima edizione dell’Ensemble Bîrûn, che rappresenta la musica di corte e le sue influenze nella vita musicale anche al di fuori di essa. L’Impero Ottomano aveva un vasto territorio di influenza e scambi culturali, il che mi fornisce numerose possibilità e un’ampia varietà di repertorio. Ogni anno, scelgo un aspetto diverso della musica maqâm o dei repertori modali dell’era ottomana. Nelle prime edizioni, è stato importante evocare il lavoro dei diversi compositori nati dalle differenti comunità. Abbiamo lavorato con i compositori dal XV al XIX secolo, compreso un pezzo di Giuseppe Donizetti che è diventato “Donizetti Pasha” a Istanbul. Dopo i compositori, abbiamo iniziato a lavorare sulle composizioni scritte in diverse lingue come ottomano, persiano, ebreo e greco».

Ogni anno, con i suoi musicisti, approfondite quindi diverse tradizioni: quali scopriremo nel 2018?

«Quest’anno studieremo in particolare il repertorio dell’ordine dei Bektashi sufi, da Istanbul e dai Balcani. Il maestro Hadj Bektash era un sufi del XIII secolo. I suoi discepoli ebbero un’importante influenza nella politica ottomana e l’esercito dei giannizzeri era spiritualmente devoto a lui. “Nefes” (“soffi dell’ispirazione divina”, ndA) è il nome del repertorio cantato durante le loro cerimonie. Esploreremo un importante lavoro svolto dall’eminente musicologo turco Rauf Yekta Bey, che ha trascritto una grande quantità della tradizione Bektashi».

Per rendere omogenei brani differenti e di tradizioni diverse, è necessario un lavoro di arrangiamento e rivisitazione? Com’è proposto in concerto il repertorio?  

«Rispetto l’autenticità del repertorio, l’unico arrangiamento è per la presentazione del concerto. La scelta dei testi è molto importante, inoltre creo un ordine dei brani in relazione a cicli ritmici e modalità. Poiché la tradizione musicale e la conoscenza delle modalità sono ancora vive, non possiamo chiamarla una rivisitazione, è piuttosto un rinfresco e un adattamento del contesto per un concerto».

Consideriamo ora il ney, uno strumento centrale nella musica ottomana e molto antico: quali considerazioni è possibile fare sulla sua evoluzione e sul ruolo attuale?

«Il ney è davvero uno strumento antico, ma ha anche grandi possibilità da esplorare. Le poesie e la considerazione da parte di importanti poeti e maestri sufi hanno dato a questo strumento un posto di rilievo nella musica classica di corte, così come nelle tradizioni sufi, in particolare nell’ordine Mevlevi, i Dervisci rotanti. Tuttavia, la rivoluzione culturale della Turchia moderna ha negato e anche tentato di proibire questa eredità. Ho la fortuna di discendere da un’antica dinastia di suonatori ney, quindi sono stato in grado di fuggire dalle influenze negative di questo periodo. Della mia generazione, ci sono solo due o tre suonatori ney. Dopo la mia formazione come musicista, mi sono stabilito a Parigi dal 1972. Vivere in Europa da più di 40 anni mi ha dato l’opportunità di presentare questo strumento e questa musica in quasi ogni parte del mondo, grazie ai miei numerosi concerti e album. Potrei dire che il mio lavoro ha avuto due effetti: il primo è la reintroduzione dell’importanza e del rispetto della tradizione di questa musica; il secondo è l’ingresso del ney in diversi mondi musicali, come uno strumento fuori dal proprio contesto. Oggi molti giovani musicisti, non solo in Turchia ma anche in tutto il mondo, interpretano il ney e io posso solo essere orgoglioso di questo successo».

Proprio in tema di conservazione del patrimonio musicale e della sua valorizzazione, quale pensa dovrebbe essere l’impegno di tutti, istituzioni, studiosi, anche il pubblico?

«Penso che siano tutti importanti ma che, in particolare per il patrimonio classico non europeo, abbiamo bisogno della protezione e del mantenimento delle istituzioni. Come sa, molti paesi sono soggetti ad acculturazione per vari motivi: la musica in questi paesi non è più un argomento di valore filosofico, storico e artistico. Diventa un prodotto commerciale. Il rispetto esiste solo nei paesi europei, che hanno creato la cultura classica della musica e l’hanno diffusa come valore universale. La musica è un’arte, non possiamo condannarla al passato. Dovrebbe essere un ponte tra il passato e il presente, altrimenti non sarebbe vivo. La musica per me è l’essenza di una civiltà e, quando questa civiltà non esiste più, deve essere sostenuta da istituzioni e accademici che consentano di raggiungere le orecchie del pubblico».

Storia, geografia e politica spesso rendono distanti delle tradizioni culturali: qual è la sua ricetta per unirle in un unico corpus e renderle fruibili anche ai neofiti?

«Per quanto mi riguarda, i confini politici e culturali non sono mai gli stessi. In particolare, la musica non può essere preda di confini o limiti culturali. Credo poi ci siano due tipi di esseri umani: quelli sensibili all’arte della musica e quelli che sono totalmente indifferenti. D’altra parte, siamo anche confusi da coloro che non sono interessati alla musica, ma da ciò che rappresenta come identità culturale. Credo che se qualcuno ha il piacere di ascoltare una cantata di Bach, la sua reazione non dovrebbe essere diversa quando ascolta una bella musica proveniente da una cerimonia di Dervisci rotanti».

La lezione dell’Ensemble, oltre che musicale, è in qualche modo anche etica e sociale: in un’epoca di contrasti e guerre, qual è il ruolo della musica?

«Sarebbe molto ingenuo credere che la musica possa essere l’unica possibilità per fermare la violenza e la barbarie nel periodo che stiamo vivendo. La musica è il riflesso di una società, se vogliamo capire il nostro tempo dovremmo ascoltare quella delle popolazioni di massa. L’essere umano è come uno strumento musicale che ha bisogno di essere in sintonia con se stesso e con il mondo in cui vive. Possiamo solo sperare che ascoltare musica sprituale possa provocare il desiderio di cercare un’armonia interiore».

Immagine di copertina Ph. Matteo De Fina

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