Impreparati: l’Accademia di Belle Arti di Urbino torna sull’Affaire Moro

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È il 9 maggio 1978: quel giorno, da via Caetani a Roma, arrivano le immagini che segnano un punto di non ritorno nella storia italiana. Sono quelle del ritrovamento del corpo senza vita di Aldo Moro, rapito cinquantacinque giorni prima dalle Brigate Rosse, simbolo di una vicenda drammatica, una ferita ancora pulsante.

Oggi, a 40 anni dai fatti, studenti e insegnanti della scuola di Scenografia dell’Accademia di Belle Arti di Urbino ritornano a quei giorni, e lo fanno con la materia che sanno plasmare al meglio: quella teatrale. Lo spettacolo “Impreparati”, in scena il 9 maggio al Teatro Rossini di Pesaro, apre uno squarcio temporale su quei tempi, prendendo le mosse da una fonte autorevole quale “L’affaire Moro” di Leonardo Sciascia. Partendo da queste pagine, la pièce si immerge in quegli anni, alla fine dei ‘70, e nello sconvolgimento profondo che l’evento lascia nella coscienza individuale e collettiva. Ma come nasce l’idea di questo spettacolo? Sono gli autori Francesco Calcagnini, Rossano Baronciani e Davide Riboli a raccontare il senso di “Impreparati”.

Francesco Calcagnini: «Nel momento in cui abbiamo deciso di trattare questo argomento, serviva un filtro e quello scelto è stato il libro di Sciascia: è stato scritto tre mesi dopo l’omicidio Moro, con gli stessi dati a conoscenza del pubblico di allora, quindi articoli e lettere scritte da Moro stesso, non certo tutti i milioni di documenti che abbiamo oggi. Sciascia arriva a scrivere un testo molto sintetico, meraviglioso, e che molto probabilmente si avvicina alle domande che ancora ci rimbalzano in testa».

Nei 55 minuti in scena, la colonna sonora ha un ruolo fondamentale. Non potrebbe essere altrimenti nel riconsegnare al pubblico un momento culturale, storico e artistico tanto intenso come quello degli anni ‘70, vera e propria “fucina di idee”, per definirla come gli autori stessi. Si parla spesso infatti degli “anni di piombo”, ma quegli stessi anni sono un periodo di fantasia e contraddizioni, di rock progressivo, delle opere di Luciano Berio e Carmelo Bene, ma anche di frivolezze come “Il ballo del qua qua”, che coabitano nello stesso decennio. Come avviene dunque la scelta del materiale sonoro?

Rossano Baronciani: «Siamo stati particolarmente attenti, quando abbiamo costruito la drammaturgia, alla musica. Gli anni ‘70 sono stati un punto di non ritorno per quanto riguarda una certa libertà creativa e di ricerca sonora. Ad esempio, sono frequenti i rimandi agli Area e a una musica che viveva di estrema ricerca, con il tentativo di esplorare ambiti sonori e musicali che portavano a risultati estremamente significativi per il tempo. In realtà, dopo l’omicidio Moro, quindi negli anni ‘80, questa ricerca si è andata perdendo, a favore di un gusto per l’intrattenimento e la spettacolarità».

Una nota doverosa: Aldo Moro è il grande assente sul palco, eppure tutto ruota intorno alla sua tragica uccisione, spartiacque di un’Italia che, in qualche modo, passa da una fase di spinta creativa e vitale a una sorta di involuzione. Nell’opera teatrale, questa transizione è tangibile in momenti precisi, con dei presagi funesti collocati nel contesto temporale, come quando la recita del “Gloria” si trasforma nel celebre brano di Umberto Tozzi. Sempre a livello contestuale, basti pensare che, mentre nel 1976 “Canzonissima” è il laboratorio della musicalità italiana, si passa al 1979 con le prime puntate di “Fantastico”, con ottiche di creazione e fruizione musicale totalmente differenti. Nel centro di tutto, compaiono proprio quei giorni di prigionia e lo spaventoso epilogo.

Rossano Baronciani: «Nella musica abbiamo lavorato molto sul disturbo: il rumore la fa da padrone. Parte di una canzone viene subito negata da una frequenza disturbata, come se si stesse cercando di ascoltare una radio, ma senza riuscirci, e questo perché abbiamo cercato di cogliere un momento di passaggio. La musica non è quindi solo un elemento dell’opera, ma parte della stessa drammaturgia: la musica, e il video, diventano protagonisti, sono soggetti recitanti e servono per dissociare la corporeità dell’attore».

Il ruolo della musica in “Impreparati” è dunque quello di vero e proprio significante: come avviene la sua messa in scena?

Davide Riboli: «Ci inseriamo in una tradizione che in Italia ha avuto l’esempio strepitoso di Carmelo Bene, che non è stato poi tanto frequentato. Questo non tanto per la sua voce, inarrivabile, quanto per un approccio alla strumentazione fonica e alla composizione dell’audio stesso, non più vista come qualcosa a sostegno di una prosa che avviene in scena, bensì come elemento fondante della drammaturgia, che assume la stessa dignità di luci, costumi e messa in scena. Anzi, nel nostro, caso la moltiplica. Lo spettacolo è interamente registrato, con una spazializzazione che aumenta di cinque volte tanto le dimensioni del teatro grazie alla sonorità. Da una parte, si ascolta una radiofonia ricchissima; dall’altra, l’occhio viene chiamato a un’azione scenica molto concentrata. La dicotomia tra questi due elementi infonde quel senso di inquietudine che si ricollega poi a quei giorni. E, in questo senso, la musica è diventata un vero strumento drammaturgico e non un semplice accompagnamento».

Non soltanto la musica in sé, ma quindi tutta la composizione digitale realizzata nella creazione della colonna sonora ha un ruolo vivo, tra rumori di scena, distorsioni di melodie conosciute e già sedimentate nell’inconscio collettivo (per esempio, la musica del famoso “Intervallo” della Rai). Queste musiche sono riscritte in forma quasi dodecafonica e subiscono la distorsione delle frequenze, in modo tale che la riconoscibilità sia preservata, ma intrisa da un forte senso di inquietudine.

Questo è quanto emerge, a 40 anni di distanza, dalla vicenda di Aldo Moro: dubbi irrisolti, una vaghezza inquieta, il crollo di certezze, filtrate attraverso l’uso drammaturgico della musica e il senso di straniamento creato dal materiale sonoro. Non tanto una pagina di storia ancora oscura, bensì una vita umana abbandonata alla disperazione e, con essa, quella di un’Italia intera.

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