Uno dei capolavori della letteratura polacca è Manoscritto trovato a Saragozza di Jan Potocki, diplomatico, etnografo e antropologo vissuto a cavallo tra Secolo dei Lumi e Romanticismo: un romanzo-saggio complesso e dalla travagliata vicenda editoriale non dissimile dall’avventurosa e tragica vita del suo autore.
Ad esso si è ispirato il regista Alberto Rondalli per il suo film Agadah, uscito nelle sale cinematografiche nel novembre 2017. Sorta di Decamerone fantasy-gotico-barocco, è un film sull’arte del raccontare, intrecciando generi e atmosfere tramite il più semplice dei pretesti narrativi: il viaggio del giovane Alfonso Van Worden, capitano delle Guardie Valloni del re di Spagna Filippo V.
Al di là dell’ottimo cast (alcuni nomi: Nahuel Pérez Biscayart, Jordi Molla, Alessio Boni, Caterina Murino, Valentina Cervi, Alessandro Haber), uno degli elementi che più risalta nel film è la musica. Una pellicola tanto eclettica richiede una varietà compositiva in grado di sostenere delle immagini così ricche visivamente e incastonate in un complesso intreccio a scatole cinesi. Una vera e propria sfida di cui si è fatto carico il compositore e pianista Alessandro Sironi accompagnato dall’Orchestra dell’Annunciata («una piccola orchestra barocca. Abbiamo dovuto rimpinzarla perché ci servivano i corni!»).
Uno sforzo compositivo che è stato riconosciuto dal regista Rondalli e dal produttore Pino Rabolini, i quali hanno deciso di sfruttare il traino della musica in occasione del ritorno del film nelle sale per la metà di maggio ’18. Così sono nati i due concerti-proiezioni tenuti lo scorso mese a Roma e a Milano, con lo stesso Sironi a dirigere i giovani musicisti dell’Annunciata. È stata l’occasione per incontrare il compositore e farci raccontare il suo lavoro.
Come è nata la musica di Agadah? È nato prima il suono, prima l’immagine oppure sono andati di pari passo?
«Conoscevo già Alberto Rondalli, avevo musicato una sua commedia nel 2007, L’aria del lago. Fu un’esperienza molto bella, una collaborazione nata proprio all’ultimo momento. Alberto aveva utilizzato musiche di repertorio, ma non ne era molto soddisfatto, così mi ha chiamato e in un mese abbiamo realizzato l’intera colonna sonora. Poi ci siamo un po’ persi di vista e l’hanno scorso mi ha telefonato per Agadah: ho ritrovato lo stesso Alberto con la sua interessantissima richiesta di una musica che non fosse mero accompagnamento alle immagini, ma composizioni dotate di una propria dignità e vita autonoma. Ciò è dovuto all’estrazione colta di Alberto, cosa che ci accomuna, sebbene io abbia avuto la fortuna di avere un padre cantautore che mi ha permesso di avvicinarmi a diversi linguaggi, dal jazz alla popular music sino alla pura improvvisazione. Per risponderti: dal punto di vista produttivo ho ricevuto il film già finito, che da un lato è una buona cosa, dall’altro è piuttosto scomoda. La fortuna è che si conoscono le immagini, i dettagli scenici, i volti, i tempi; ma proprio per questo ci si ritrova a scrivere qualche irregolarità musicale per riuscire a essere intelligenti e coerenti con le durate delle scene ormai fissata. È stata una bella impresa, anche perché le scadenze erano stringenti: ho iniziato a pensare veramente alle musiche a marzo e avevo la consegna a metà giugno».
È stata una scrittura molto serrata, soprattutto considerando la varietà e la quantità di partiture richieste.
«Riguardandole tutte insieme si direbbe un’opera. Quasi cinquanta partiture d’orchestra dove non si ripete mai una sola musica. Ritornano alcuni temi fondamentali, ma sempre e comunque variati, trasfigurati. Una delle prime suggestioni che ho avuto per questo lavoro è stata i Quadri di un’esposizione di Musorgskij. Il film è costruito nello stesso modo: anche il protagonista di Agadah ha sua Promenade, che è il tema di Alfonso, e poi ha i vari quadri – le storie che ascolta – i quali, alle volte, nascondono temi già uditi, più o meno riveduti, trasformati, nascosti. Il gioco era proprio questo: riuscire a dare un’unità a un film che solo apparentemente è disomogeneo. Perché, come dice Potocki all’inizio: «non pensate che queste storie siano una serie casuale di vicende; in realtà esse parlano sempre di me stesso». E quindi anche il compositore, in questo caso, parla sempre di sé stesso, attraverso i temi che tornano. Starà allo spettatore riconoscerli».
Altre fonti di ispirazione?
«Dovendo scrivere molta musica tanto variegata, ho dovuto attingere da un grande bagaglio musicale. Vista l’ambientazione del film ho ripreso il mondo barocco, benché non vi fosse l’esigenza di essere troppo filologici. Ci interessava un profumo: la Follia di Corelli, Vivaldi, il barocco spagnolo, la musica liturgica, fino alla modernità. Gli esempi di Alberto spaziavano dalle Suites di Bach fino a Ligeti… Il tema di Alfonso, invece, ha un sapore quasi seicentesco per rispettare l’impronta che Alberto ha voluto dare al protagonista, riassunta nella citazione di Cervantes in epigrafe, di un Don Chisciotte che affronta varie vicissitudini. Film e musica potrebbero sembrare una sorta di “esercizio di stile” nel quale è richiesto ogni volta un mondo diverso, un carattere particolare. È stata una grande sperimentazione agevolata da Alberto; anzi io forse mi sono trattenuto più di quanto avrebbe voluto, perché lui è uno sperimentatore. Anche io lo sono, ma non mi piace che si senta la sperimentazione, per me la sperimentazione è affare mio. Mi piace di più questa idea dell’arte, più discreta».
Per l’esecuzione hai diretto l’Orchestra dell’Annunciata. Che esperienza è stata?
«In alcuni casi se è il compositore stesso a dirigere si possono accorciare molto i tempi. È naturale: il compositore sa già cosa vuole e dove andare a lavorare. Soprattutto teniamo conto che la grande difficoltà di registrare una colonna sonora di un film già esistente è riuscire a rispettare durate precisissime. E tutto ciò è vincolante. Quindi: sincronizzare video e orchestra, e chi meglio di me forse poteva? Conoscevo a memoria le scene! Esperienza bellissima, e che considero un lusso per me che non sono un vero direttore. Mi era già capitato di dirigere in passato, ma sempre chiedendo ai musicisti di avere molta pazienza. Però si può fare, e ci ho preso molto gusto. Ecco, forse non potrò mai dirigere la Quinta di Mahler… ma chissà».
Per quanto riguarda i solisti?
«Alessandra Gardini è una mia vecchissima compagna di vita, perché ci conosciamo da quando siamo adolescenti. Lei poi negli anni ha preso la strada del canto barocco. È stata la prima a cui ho chiesto di fare un provino; ho cercato altre cantanti per avere più scelta, ma mi sono accorto che la sua voce era l’ideale per l’aria di Dariolette, molto ferma, chiara, perfetta. Paola Fernandez dell’Erba, invece, argentina, la conoscevo perché abbiamo collaborato in teatro tanti anni fa e l’ho sempre stimata perché ha questa voce scura, autentica, intensa e molto umana. Paola è una tanguera e si sente. Quando è nata l’idea della canzone ho subito pensato alla lingua spagnola. L’ho cercata anche per farmi aiutare a scrivere le parole e per avere consigli sulla pronuncia. Poi la sua voce era perfetta per l’effetto che volevo ottenere. Daniela Cammarano, violinista strepitosa, me l’hanno presentata. Ho chiesto ad amici musicisti un violino con una voce importante, ho avuto il suo nome e l’ho chiamata; simpaticissima, nel giro di tre minuti eravamo già sulla stessa lunghezza d’onda».
Oltre al film, sono ormai quattro anni che sei impegnato nel progetto PianoMirroring. Pensi che abbia cambiato qualcosa nel tuo modo di comporre?
«Ha cambiato me. Quando faccio PianoMirroring sono un compositore estemporaneo, guardo negli occhi la persona seduta alla coda del pianoforte e comincio a raccontare il film che vedo attraverso la musica: è nato un modo di vedere il mondo, una via sapienziale. Per me è questo il futuro: la musica come strumento ideale per un’indagine poetica e profonda della psyché, territorio sul quale non si può agire con strumenti razionali. L’analisi è utile, ma limitata. L’arte, invece – soprattutto la musica, che a mio avviso è l’apice del linguaggio artistico perché possiede il senso temporale e spaziale – è sottile: è «spiritus», direbbero i latini, un vento, al confine tra mondo materiale e immateriale. Un paradosso: un corpo che appare disincarnato ma palpabile e misurabile. La più grande metafora dell’essere umano. Attraverso la musica, svolta in certi ambiti e secondo alcuni criteri, è possibile raccontare quella psyché che è talmente complessa che solo una partitura complessa può andare a raccogliere. E il mio lavoro è andare a creare in tempo reale strutture musicali complesse per rispecchiare quella partitura complessa che è la psyché individuale. E vado a cogliere un momento di una persona, un profumo, un frammento di colonna sonora che abita il film di quel preciso essere umano».