Ildebrando D’Arcangelo è Filippo II nel Don Carlo al Deutsche Oper di Berlino

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Ha riscosso un successo più che meritato Ildebrando D’Arcangelo, al suo debutto in Filippo II di Spagna, nel Don Carlo al Deutsche Oper di Berlino.

Accolto da una messa in scena apparentemente sobria, ma invece, ricca di significato, ha saputo vestir bene i panni di uno dei “più cattivi tra i cattivi”. E nell’attesa “Ella giammai m’amò”, con in mano quello scrigno dentro il quale si nasconde l’immagine del vero amore di Elisabetta di Valois, c’è una particolare attenzione sul respiro, lento e delicato. Ma c’è anche una voce che sembra aver acquisito più corposità e rotondezza, una tecnica ricercata, che con Verdi ha quell’in più che nel suo ormai ben noto repertorio mozartiano probabilmente non viene fuori in tutta la sua pienezza, nonostante continui a riscuotere tutt’oggi un successo motivato. Ed è così che per il suo secondo “vero imponente” ruolo verdiano, dopo l’Attila di qualche anno fa, per D’Arcangelo la strada verso quella che lui stesso definisce “la Verdi maniera” sembra abbia avuto ufficialmente inizio.

La messa in scena di Marco Arturo Marelli, che debuttò nel 2011 nel teatro berlinese, nonostante la sua apparenza austera, tuttavia conserva dei chiari messaggi più che mai attuali. Da quell’oscurità che si cela dietro il tanto ostentato potere del clero, qui ben evidente non soltanto nella figura del Grande Inquisitore, ma anche dei suoi adepti che bruciano testi sacri non appartenenti al loro culto e sottraggono infanti a madri in lacrime. Al gusto quasi tetro dei personaggi in scena, che compaiono tutti dinnanzi ad un sottofondo nero grigio, talvolta intramezzato da colori forti come il rosso o il blu.

Insomma, nel Don Carlo del bravo Marelli la denuncia al clero è garbata ed evidente. Garbata, perché anche un cruento rogo messo in atto per mano del tribunale dell’inquisizione, appare talmente ben pensato che non scatena disgusto, ma che piuttosto porta ad una attenta riflessione sui temi odierni della prevaricazione del più forte sul più debole, e delle tante ingiustizie frutto della mano dell’uomo inconsapevole. Anche Elisabetta è una sposa vestita di nero, quasi in lutto per un destino ingrato che la poterà ad essere la “matrigna” del suo amato Carlo.

L’orchestra del Deustche Oper ha supportato bene un cast quasi tutto d’eccezione. Probabilmente la bacchetta di Donald Runnicles riesce, tra i pochi, a tirar fuori il lato meno meccanico di una formazione spesso vittima di critiche soprattutto in Verdi, repertorio nel quale non è raro riscontrare contaminazioni stilistiche di varia provenienza.

Eccellente interprete è invece Etienne Dupuis ( che è insieme Rodrigo e il Marchese di Posa), a lui si deve un “Per me giunto il dì supremo” di rara bellezza per una bellissima vocalità, accompagnata da un buon fraseggio. Al suo fianco l’amico Carlo ( Yosep Kang) uno di quei rari casi in cui una voce asiatica non sembra quella di un bravo “imitatore degli Dei del passato”, ma che è certamente dotata di evidenti capacità tecniche e interpretative, oltre che di una certa compostezza nel registro più acuto. Anche Elisabetta di Valois ( Anja Harteros) non è da meno, la sua voce è talmente ben gestita da essere leggera e imponente al tempo stesso e commuove su quel “ se ancor si piange in cielo, piangi sul mio dolore e porta il pianto mio al trono del signor…”. Convince, invece, un po’ meno la principessa Eboli ( Elena Zhidkova). Bravo Marko Mimica ( un monaco) e anche il Grande Inquisitore ( Matthew Rose). Insomma, uno di quei pochi casi in cui il termine “quasi perfetto” appare d’obbligo ed è giusto che venga utilizzato.

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