L’11 aprile scorso ho visto alla Scala il Don Pasquale messo in scena da Davide Livermore e diretto da Riccardo Chailly (con Ambrogio Maestri nel ruolo eponimo). Questa non è una recensione ma una reazione a caldo che riguarda un singolo punto di scena dello spettacolo.
L’estroso regista rilegge l’opera di Donizetti in chiave cinematografica e la infarcisce di rimandi ai film di Fellini e della commedia all’italiana. Si inventa anche un antefatto totalmente gratuito: durante la Sinfonia si vede il funerale della terribile genitrice di Don Pasquale, una madre castratrice che ha oppresso il figlio per tutta la vita impedendogli di avere una sfera sentimentale autonoma. Naturalmente la musica di Donizetti dice tutt’altro.
Nella Sinfonia si succedono infatti due temi musicali: prima quello del sentimentalismo di Ernesto (la Serenata del terzo atto) e poi quello della civetteria di Norina («So anch’io la virtù magica»), quasi a esprimere l’incomunicabilità tra i due sessi, quello maschile e quello femminile. Ma tant’è. Il regista è diventato un autore e questo fa parte del gioco.
Tra le citazioni cinematografiche ce n’è però una ricca di implicazioni che vorrei discutere brevemente qui. All’inizio del secondo atto il tenorino Ernesto canta il suo dolore («Cercherò lontana terra») preceduto da un a solo di tromba struggente e memorabile. Livermore accompagna visivamente questa musica con una controscena che cita in modo assai esplicito il famoso episodio della Dolce vita in cui il clown triste suona la tromba tirandosi dietro i palloncini.


Come ha spiegato molto bene Franco Fabbri, alla fine degli anni ’50 quello della “tromba triste” diventa nella musica pop (e non solo) un vero e proprio topos musicale. Nino Rota lo fa proprio già a partire dalla tromba di Gelsomina. A livello internazionale, l’impatto forse più significativo nel cristallizzarsi di questo “musical topic” l’ha avuto “El degüello”, la melodia della morte che aleggia nel film Rio Bravo di Howard Hawks (musica di Tiomkin).
Ora, l’associazione proposta da Livermore implica una questione interessantissima e piena di conseguenze. L’assolo donizettiano è un’anticipazione ottocentesca del novecentesco topos della “tromba triste”? Si tratta insomma di un ribaltamento/introversione della connotazione marziale/eroica (“Suoni la tromba e intrepido / io pugnerò da forte”) che la tromba porta tradizionalmente con sé?
Un effetto simile lo si ritrova anche nella tromba che fa capolino nella Sinfonia dell’Aroldo di Verdi, la cui melodia verrà poi cantata dal tenore-guerriero che racconta di come in guerra soffrisse per amore («Sotto il sol di Siria ardente»). Non ho una risposta, ma ringrazio il regista Livermore di avermi indirettamente suggerito la domanda.