Il silenzio, alla fine di ogni brano, carico di tensione, tra il fremito dell’ultima nota e gli applausi imminenti e impazienti del pubblico: questa è stata la cifra più segnante del concerto del Quartetto Arditti al Teatro Lirico di Cagliari, giovedì 15 marzo, per la Stagione sinfonica dell’istituzione. Un appuntamento purtroppo sottovalutato dal pubblico, probabilmente non preparato al programma Novecentesco ma, in generale, più rivolto verso l’opera lirica che verso il cartellone strumentale. Ed è un gran peccato, perché questa mentalità prettamente italiana ha fatto perdere a molti uno degli spettacoli più belli e intensi dell’intero anno.
Sul Quartetto Arditti non c’è bisogno di spendere molte parole: la loro fama li precede, in oltre quarant’anni di carriera dalla loro fondazione sono stati fra i protagonisti della musica del XX e XXI secolo, dedicatari di numerosi lavori e con un repertorio di incisioni discografiche vastissimo e conservato alla Fondazione Sacher di Basilea. Saliti sul palcoscenico cagliaritano, hanno attaccato il Quartetto n. 6 in Re maggiore di Bèla Bartòk evidenziando da subito il loro suono caratteristico, tagliente, quadrato, che poco spazio ha lasciato anche a quel lirismo comunque presente nel brano del compositore ungherese.
La dimensione ironica del terzo movimento (“Mesto. Burletta”) ha investito di crisi novecentesca (e contemporanea, dopotutto) ogni singola battuta, esplicandosi soprattutto nella concentrazione degli esecutori sul ritmo grottesco, mentre l’ultimo movimento ha riportato il tutto verso quel senso di unità beethoveniana così auspicata da Bartòk. A Way a Lone del giapponese Toru Takemitsu, il più celebre fra i compositori giapponesi della seconda metà del secolo scorso, ha sicuramente colpito gli ascoltatori, probabilmente al primo incontro col brano. Qui il Quartetto Arditti ha scelto un, efficace, movimento per masse sonore, creando una spazialità nella quale espansione e contrazione dei volumi timbrici hanno dato vita a strutture quasi visibili tridimensionalmente.
Dopo l’intervallo, i suoni graffianti di Silent Flowers di Toshio Hosokawa hanno riportato ad una atmosfera meno costruttivista e più segmentata, graffiante, nella sensorializzazione strumentale portata all’eccesso, esasperata nel far trascolorare le note in effetti sonori. E poi il Quartetto n. 2 di György Ligeti, il brano meglio riuscito della serata. L’esperienza dell’Arditti si è fatta sentire con tutto il suo peso, la conoscenza profonda della micropolifonia in un flusso narrativo catalizzatore, il violoncello (Lucas Fels) che emergeva in una coerenza espositiva mediata dal gruppo. Un’esecuzione che ha lasciato tutti col fiato sospeso e che ha provocato un’ovazione fra il pubblico, con tanto di standing ovation di ringraziamento al Quartetto per la bella serata musicale regalata.