Giunto alla fine del suo terzo anno come Presidente dell’Accademia di Santa Cecilia, Michele Dall’Ongaro ha recentemente presentato la sua prossima stagione, che si aprirà con “West Side Story” di Bernstein diretto da Pappano e si concluderà con un concerto beethoveniano sotto la bacchetta di Gustavo Dudamel. È l’occasione di dare uno sguardo al passato e al futuro dell’Accademia, secondo le parole del suo Presidente.
Maestro Dall’Ongaro, siamo ormai arrivati alla fine del suo primo triennio da Presidente dell’Accademia di Santa Cecilia, tre anni che ci permettono di fare un primo bilancio.
«Quasi tre anni, sì. Quando sono stato eletto, dopo un periodo come Vicepresidente, ho trovato l’Accademia in splendida forma grazie al lavoro di tutti, alla presidenza del professor Bruno Cagli e alla presenza del Maestro Pappano cui, non a caso, ho avuto la fortuna di poter chiedere per ben tre volte il rinnovo dell’impegno: intanto, fino al 2021, ce lo siamo assicurati. Da un punto di vista strettamente musicale, infatti, c’era la necessità di garantire all’Accademia una fase di sviluppo e benessere grazie alla collaborazione con lui e con i direttori che accompagnano il percorso dell’Accademia in questa fase di transizione. Transizione perché non ci sono più Prêtre, Maazel, Abbado, Sawallisch, quella generazione di direttori che ha seguito il percorso dell’Accademia in questi quarant’anni e ne ha garantito la crescita. Questa si ottiene generalmente con tre sistemi: primo, con un direttore musicale capace, che si curi dell’orchestra; secondo, con la presenza costante dei migliori maestri possibili e che tornino a dirigere più volte, perché non basta un concerto; infine con molta musica da camera con gli orchestrali. E sì, possibilmente con una programmazione equilibrata, intelligente e stimolante, ma è un po’ come dire la pace del mondo (ride).
Poi c’è stata anche una trasformazione informatica, con il cambio della strumentazione e il backup di anni di dati, e dell’organizzazione del lavoro: una nuova pianta organica e un nuovo contratto con l’orchestra, trovando insieme ai rappresentanti sindacali un rapporto che da un lato dava flessibilità e dall’altro acquistava tempo. Una trasformazione necessaria perché il futuro è molto diverso dagli anni che ci hanno preceduto. Una volta bastava andare a chiedere risorse, perché il nome dell’Accademia comunque apre molte porte, ora non puoi andare in giro col cappello in mano perché pensi di meritartele, ma solo perché vuoi davvero condividere un progetto. La parola chiave è diventata condivisione: si può chiedere qualsiasi cosa, ma solo in cambio di un progetto. E questo vale con tutti, con il pubblico, con gli abbonati, con i musicisti, con il personale, con gli sponsor, con i soci fondatori. E te lo devi meritare tutti i giorni, non si può dare nulla per scontato.
Questa è una fase di transizione, dicevo, anche per le complessità del rapporto con il pubblico. Abbiamo dovuto fare una scelta che potrebbe sembrare periferica e marginale, ma che per noi è di grande impegno: il cambio di turno. I nostri appuntamenti tradizionali erano sabato, lunedì e martedì, ma era diventato ingestibile perché i grandi artisti hanno impegni che vanno a settimana e tenerli liberi per due, visto che si scavallava, ci impediva di avere alcuni nomi che invece ora tornano. Però le abitudini del pubblico vanno considerate ed è importante costruire un rapporto di fiducia che va coltivato con incontri, lettere, conversazioni con gli abbonati, con gli Amici dell’Accademia ed anche con i genitori dei 1300 bambini della JuniOrchestra e dei cori. Realtà importantissime perché qui siamo fermamente convinti che la formazione musicale non serva solo ad imparare a suonare e cantare, ma serva ad avere un rapporto maturo e continuativo con l’arte dei suoni. E questo coinvolge sia le famiglie, sia i giovani. Anche perché tutte le persone dalla mia età in su, quindi dai sessanta ai duemila anni, ci raccontano che andavano a concerto già a dodici o tredici anni. Questo significa che adesso dovremmo vedere frotte di dodicenni. E se non li vediamo, vuol dire che tra dieci anni avremo delle difficoltà, come certi partiti che non vengono più votati.
Economicamente, infine, in questi tre anni siamo riusciti a tenere tutti e tre i bilanci in pareggio ed è una cosa molto, molto importante. Per questo devo ringraziare tutti e soprattutto devo ringraziare chi lavora dentro questa azienda: perché è una famiglia, ma è anche un’azienda e le due cose insieme ti permettono di trovare quella marcia in più che ti garantisce quella voglia di scommessa, di passione, di visione».
Qual è dunque la sua visione del progetto Accademia?
«L’idea che io mi sono fatto dell’Accademia è che non sia una fondazione che organizza concerti né una Fondazione Lirico Sinfonica, anche se il suo codice fiscale dice quello, ma una rete, un sistema. È così da sempre, è questo il suo segreto, è per questo che sta lì da 500 anni. Non solo perché ha preso un modello di governance certificato, cioè il Vaticano: 70 cardinali, 70 accademici…».
Un papa…
«Sì, beh, adesso non vorrei montarmi la testa! Però ha funzionato 2000 anni da un lato, 500 dall’altro, vuol dire che qualche pregio ce l’ha! Ma non è solo questo. È che da sempre l’Accademia ha intercettato e a volte anticipato gli umori e le esigenze della società. Faccio un esempio. Il mai abbastanza lodato Sovrintendente Conte di San Martino nel suo cinquantennale ha fatto alcune cose, come consentire a personaggi importanti della società di diventare accademici o fondare l’Accademia di Arte Drammatica e la Scuola di Cinema, e le ha fondate come Santa Cecilia. La musica era il centro di una rete e lo strumento di trasformazione della società. Secondo me Santa Cecilia dev’essere questo ed è per questo che, pur essendo il nostro “core business” (per dirla come gli industriali) la stagione sinfonica, ha attività come il progetto Fidelio, ossia i cori di detenuti attivati nel carcere di Rebibbia grazie alla collaborazione con il Ministero di Giustizia. Santa Cecilia questo può fare: fornire degli strumenti perché la musica diventi uno strumento per conoscere e trasformare il mondo.
Detto tutto ciò, quando si costruisce una stagione come quella dell’Accademia di Santa Cecilia, la prima cosa che devi fare è avere la garanzia assoluta di essere nella serie A, come per le squadre di calcio. I programmi che pubblichiamo vengono letti immediatamente da San Francisco a Los Angeles, da Vienna a Berlino, e lì si fa la graduatoria. O sei dentro o sei fuori. Per esser dentro devi avere certi nomi, che sono quelli che garantiscono la qualità di quel circuito. Di conseguenza devi partire da questi nomi. Noi siamo messi bene, perché abbiamo Pappano, ma se si vede l’elenco di direttori di questa stagione abbiamo per la prima volta Gardiner, abbiamo Bychkov, Chung, Honeck e alcuni direttori che stiamo cominciando a scoprire come Jakub Hrůša, che è ancora poco noto, ma che secondo noi è una delle grandi stelle su cui puntare. È importante anche capire quali sono questi talenti. E questo lo valuti in due modi: all’inizio con la reputazione e poi, quando lo vedi all’opera, come si relaziona con l’orchestra, che è la cartina di tornasole. Direttori e solisti sono molto importanti, dunque, ma è anche importante la proposta del programma. Anche perché noi abbiamo un tema: una sala gigantesca da 2700 posti. Per tre. Perché non solo Santa Cecilia è l’unica orchestra sinfonica ad avere un coro stabile, ma abbiamo anche tre turni di abbonamento. Ogni settimana dovremmo quindi convincere quasi 9000 persone a venire qua».
Come vede il futuro dell’Accademia di Santa Cecilia, dunque?
«Sicuramente bisogna avere delle linee guida o si rischia di perdersi in mille cose. Abbiamo due polmoni, da un lato l’orchestra e tutte le attività dei suoi orchestrali, dall’altro la formazione che va dai concerti per le donne incinte fino ai corsi di alto perfezionamento che son lì dal 1939. Queste due cose devono essere tenute saldamente insieme e circondate dal lavoro della nostra bibliomediateca, una delle più importanti e storiche al mondo, che organizza le attività culturali, i dibattiti, le pubblicazioni e il materiale didattico, che ora stiamo lanciando in una collana per promuovere il “Sistema Santa Cecilia”.
Quindi in futuro io vedo questo organismo tenuto insieme dall’energia e dal sangue delle nostre radici e dall’attività di ricerca della nostra bibliomediateca, con una parte social ancora più penetrante. Il progetto Fidelio è la punta di un iceberg che vorremmo si sciogliesse quanto prima e sarà raccontato da una nuova piattaforma informatica. E questo significa anche puntare sempre di più sulle riprese streaming. Abbiamo cominciato molto bene con le esperienze di Pappano in Web e con un’ultima che ci ha lasciati strabiliati. Questa la devo raccontare: la Nona di Beethoven al Foro Italico, seimila persone presenti ed entusiaste, ma soprattutto un’area fornita da TIM e attrezzata per influencer ed invitati, quasi tutti teenager cui era consentito fare ciò che agli altri in genere è proibito. Filmare, fotografare, chattare, condividere, commentare qualsiasi cosa. Un risultato incredibile che ci ha fruttato circa 52 milioni di interazioni: 52 milioni vuol dire un paese, una nazione e significa che dentro e intorno a questo mondo c’è una curiosità e un interesse enorme e una grande possibilità di sviluppo, che noi chiediamo venga messo in luce e in evidenza. Ovviamente da soli non ce la possiamo fare. Senza l’istruzione musicale, così spesso chiesta, staremo tutti a svuotare l’oceano con un cucchiaino. E non lo dico perché bisogna portare pubblico qua, lo dico perché bisogna salvare questo paese e credo che la musica lo possa fare».
Un’ultimissima domanda in merito alla questione interazioni. Lei crede che in questo mondo in cui la fruizione culturale, anche attraverso i social, è frequente ma rapidissima, ci sia spazio per i tempi dilatati che sono propri invece della musica classica?
«Sì, la domanda è giusta. Io credo che invece ce ne sia sempre di più di spazio. Ho la sensazione che ci sia una grande necessità di fermarsi, di ascoltare e di essere ascoltati. Lo vediamo con il sempre crescente interesse verso un diverso stile di vita, più rilassato, con uno sguardo alle discipline orientali, a quel mondo altro. Anche nelle sue inflessioni più elementari o istintive, questo esprime comunque una necessità di coscienza, di riflessione, di conoscenza. E credo che figlio di questa necessità sia anche lo spazio interiore che ognuno ha bisogno di trovare, fosse anche solo per un minuto. Faccio un esempio che va nel senso opposto: ieri Pappano, come molti musicisti fanno ormai da diversi anni, ha suonato con Alessandro Carbonare in aeroporto per Santa Cecilia al volo. Io credo che quella spruzzata di Schumann, che permette anche al viaggiatore in ritardo di fermarsi e aprire per un attimo le orecchie, faccia la differenza. Perché la musica sono idee, ma queste idee fanno la strada inversa delle altre. Entrano dalla pancia, salgono attraverso il cuore e poi vanno su a finire in testa e ci rimangono per sempre. Tanto è vero che a volte gli effetti della musica rimangono anche quando questa non viene eseguita. Gli ultimi quartetti di Beethoven, lo ricordava Berio, sono stati considerati intoccabili per anni eppure hanno avuto un’enorme influenza sui secoli successivi. Quindi, le vie del Signore saranno infinite, ma quelle della musica quasi. E non è una questione di tempo misurato, ma una necessità di tempo interiore. E a quella la musica risponde meglio di tutto».