“Chiostri” al Conservatorio di Milano: intervista a Diego Dini Ciacci

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Nella storia dell’arte, tanto più in quella di un’arte intangibile come la musica, esiste una categoria che si presenta in quantità infinitamente superiore a tutte le altre: quella delle opere dimenticate, categoria che non conosce confini geografici, ideologici o temporali e che meno spesso di quanto si creda ha a che vedere con questioni di (de)meriti artistici.

È lodevole, allora, che in una cornice tutto sommato “leggera” come quella di una rassegna estiva presso il Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano ci sia chi abbia pensato proprio a questo tipo di repertorio. Chiostro, questo il nome della rassegna, dopo l’esordio dell’anno scorso torna per la sua seconda edizione in quella che ci auguriamo essere l’inizio di una piacevole tradizione. Tutti i giovedì, fino al 19 luglio, i giovani musicisti del Conservatorio presenteranno al pubblico milanese una serie di serate a tema che spicca per originalità della proposta, da opere giovanili di compositori famosi a lavori di personaggi meno noti o riletti in una luce particolare: come l’Histoire du soldat  in milanese, le chansons dei grandi auteurs-interprètes della musica francese orchestrate dagli allievi delle classi di composizione oppure lavori di Kapustin, Reich, Villa-Lobos e altri ancora.

Abbiamo incontrato l’ideatore della rassegna per farci raccontare il motivo che sta dietro a questa particolare proposta, al punto da caratterizzarla in maniera inconfondibile. Acclamato da decenni come uno dei migliori oboisti italiani, direttore d’orchestra, insegnante e direttore-ideatore artistico, Diego Dini Ciacci possiede una spiccata curiosità – basta guardare la sua produzione discografica per farsene un’idea – proprio verso questo repertorio meno noto che ha mosso tutta la sua attività umana e professionale.

Come è nato Diego Dini Ciacci come direttore artistico?

Ho avuto la fortuna nel mio passato di fare diverse esperienze che poi sono risultate fondamentali per il mio lato creativo. Ho fatto parte di Carme, una società italiana di musica da camera che fu il primo gruppo sponsorizzato interamente da Montedison e che aveva come finalità artistica quello di divulgare la musica meno eseguita Poi ho suonato con Max Roach e Piazzolla, progettando anche delle cose per loro, insomma non fermandomi solo alla musica classica. Mi è sempre piaciuto proporre novità, andare a scoprire…

È un aspetto che si nota anche nella sua produzione discografica, l’interesse verso i “Carneadi”, musicisti poco noti o dimenticati dalla storia: l’ultimo disco (uscito a marzo 2018) dedicato a Alexandre Tansman, ma in precedenza si è concentrato anche su Giuseppe Ferlendis, Johann Nepomuk Hummel… 

Suono uno strumento che non si può permettere di incidere solo Mozart e Strauss. Mi ricordo sempre il complimento-lamento che un giorno mi fece un agente famoso: «magari potessi avere voi strumentisti a fiato: voi siete fantasiosi, andate a cercare di tutto, però la gente vuole ascoltare il concerto di Beethoven per violino, il concerto di Mozart per pianoforte, e noi siamo rovinati da quello». La curiosità guida il novanta per cento delle mie scelte: suono molto con CPO che ha in catalogo cose un po’ particolari; i progetti con Sony dedicati a Donizetti e Bellini riguardavano la riscoperta del sinfonismo italiano.

Scelte di repertori rari, poco frequentati che richiedono coraggio a chi esegue, ma anche a chi programma. Mi sono mosso così, quando mi è stato dato di fare il direttore artistico; continuo a muovermi così nella programmazione della stagione nel Chiostro del Conservatorio: secondo me un’opera maggiore di un compositore minore è più interessante di un’opera minore di un compositore maggiore. Occorre proporre per forza i primi concerti per pianoforte di Mozart? Non sarebbe meglio un concerto di Alkan? Sibelius viene eseguito pochissimo, giusto quelle due sinfonie, inserire qualcos’altro ogni tanto non nuoce affatto. Oppure Kallinikov: ha composto delle sinfonie stupende, ma non vengono mai programmate. Di musica ce n’è tantissima…

Anche per quanto riguarda la programmazione di Chiostro, si nota questa tendenza a evitare il “grande repertorio”.

Vorrei che anche i ragazzi si avvicinassero al Novecento e alla musica d’oggi in tutte le sue accezioni, scoprendo pagine che non rientrano nel repertorio comunemente affrontato dal percorso di studi. In due anni abbiamo fatto scoprire un po’ di Kagel, abbiamo portato il tango e il flamenco per la prima volta dentro il Conservatorio, in versione danzata non solo affidata all’esecuzione strumentale. Io reputo quasi un obbligo che i ragazzi conoscano queste cose. Già un Philip Glass – che abbiamo fatto l’anno scorso – o uno Steve Reich per me sono storia ormai, non sono più contemporanei.

Quali sono le differenze rispetto alla prima edizione dell’anno scorso?

La caratteristica fondamentale di Chiostro è di essere una stagione tutta affidata ai ragazzi: dirigono, suonano, fanno i solisti, cantano. Chiaramente qualche volta abbiniamo solisti di fama, solitamente artisti provenienti da ambiti di cui non disponiamo in Conservatorio: l’attore, i ballerini o la cantante brasiliana ad esempio. Lo scorso anno i concerti erano divisi in due parti: una prima parte di musica classica e una seconda più crossover, dedicata alla musica extracolta, con tango, flamenco, jazz, musica popolare. Sempre all’interno di una coerenza di pensiero che mostra l’enorme varietà con cui si può declinare uno stesso tema. Quest’anno c’è molto più repertorio cameristico, quindi ancora più responsabilità per i ragazzi coinvolti nel progetto, perché quando suoni in un’orchestra da camera ti devi appoggiare molto agli altri; ancora di più se ti esibisci in un quartetto o in un quintetto.

Per quanto riguarda gli ospiti (Luciana Savignano, Ornella Vanoni, la Kansas University Jazz Band) e le collaborazioni (la classe di Teatro di figura dell’Accademia di Brera)?

Ornella Vanoni ha tenuto una masterclass, ma non siamo ancora certi della sua presenza. Per il resto, molti di questi ospiti sono mie conoscenze oppure si tratta di artisti in contatto con il Conservatorio per altri progetti, come nel caso della Kansas University Jazz Band, che ho pensato di coinvolgere per una serata con brani di autori americani che la formazione ha in repertorio. Però direttore e solista saranno due nostri allievi [Cesare Della Sciucca e Lorenzo Baldasso, ndr]: una bellissima esperienza per un ragazzo, che spero si ricorderà a lungo. Con Brera la collaborazione è nata perché desideravo poter realizzare un omaggio a un autore che amo molto, Gino Negri. Avevo la partitura della sua operetta (Il tè delle tre) che presenta alcuni problemi scenici: per risolverli abbiamo deciso di rappresentarla con il teatro di figura, cioè con i pupazzi. Ho contattato il Professor Giromella dell’Accademia di Brera, che aveva già collaborato con alcuni miei colleghi, e… non vorrei svelare troppo!

Diego Dini Ciacci ha varie anime: direttore e ideatore artistico, musicista, conduttore, insegnante. Quale di queste professioni preferisce?

Dirigere mi piace tantissimo, come anche suonare: sono anni che lo faccio. Il sistema musicale è molto cambiato dai miei tempi: suono da quarantasette anni e da trentasei sono via dalla Scala. Mi avvio alla pensione: cerco di fare quello che più mi piace, come lavorare con i ragazzi, senza preoccuparmi troppo di inseguire i sogni.

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