Billy Budd di Benjamin Britten al Teatro dell’Opera di Roma

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Il contenuto di verità di un’opera d’arte, sosteneva Adorno, consiste nella capacità della stessa di mettere in discussione la realtà, facendo emergere possibilità alternative rimaste sino a quel momento sconosciute. Anche se questa è chiaramente una semplificazione del pensiero del filosofo tedesco, l’opera Billy Budd di Benjamin Britten, tratta dall’omonimo romanzo di Herman Melville, su libretto dello scrittore britannico Edward Morgan Forster coadiuvato dal drammaturgo Eric Crozier, conserva intatta questa facoltà. Trascendendo i limiti spazio-temporali dell’epoca di composizione (l’opera andò in scena al Covent Garden di Londra nel 1951), essa allude infatti a temi universali capaci di mordere nel profondo l’animo dell’uditorio, lasciando quella sgradevole sensazione di impotenza che spesso tormenta le nostre coscienze di fronte alle ingiustizie. Billy Budd ha solcato le scene del Teatro dell’Opera di Roma, in occasione di un nuovo allestimento in coproduzione con il Teatro Real di Madrid e la Royal Opera House Covent Garden di Londra. Sul podio vi era la sapiente bacchetta britteniana del direttore d’orchestra statunitense James Conlon, mentre la regia, meritoria del prestigioso riconoscimento dell’International Opera Award, è di Deborah Warner.

L’opera, che prevede un organico di sole voci maschili tra coro e una ventina di solisti, ci porta indietro nel tempo, nell’estate del 1797, sul ponte di coperta della nave della marina militare britannica dal fulgente nome di «Indomitable», all’epoca delle guerre napoleoniche che vedevano il vecchio ordine europeo mobilitarsi contro la minaccia giacobina. Un microcosmo umano di dolore ed oppressione conduce la propria esistenza galleggiante tra i soprusi degli ufficiali, le ingiuste punizioni, i turni massacranti, le estenuanti condizioni igienico-sanitarie: nessuna redenzione sembra possibile per il coro dei marinai, cui Britten affida sin dall’inizio uno dei più importanti e struggenti motivi conduttori dell’opera, la sconsolata cantilena che accompagna il movimento del lavoro meccanico di pulizia sul ponte della nave («O heave! O heave away»). Uno squarcio di luce interrompe però questo girone infernale senza via d’uscita, quando sulla nave giunge una nuova recluta prelevata forzatamente da un mercantile di passaggio: si tratta del giovane e bel marinaio Billy Budd, della cui leggiadria e limpidezza d’animo si invaghisce immediatamente l’intero equipaggio. Billy proviene da un’altra nave, significativamente intitolata «Rights o’Man – diritti dell’uomo», ed è felice di averla lasciata alle spalle, pronto a lavorare come gabbiere nella sua nuova casa galleggiante, pur disvelando immediatamente la propria fragilità, che si esprime attraverso un forte attacco di balbuzie. Il giovane marinaio simboleggia tutto quel che di buono e positivo c’è al mondo, ciò per cui vale ancora la pena lottare, l’innocenza del puro spirito umano che proviene dall’infinito del mare e a quella vastità immensa tornerà quando, nell’ingiustizia della sua espiante esecuzione capitale, penzolerà appeso al pennone.

La «monarchia galleggiante», come viene denominata spesso la nave da guerra, è retta dal sapiente governo del capitano Vere, che rappresenta l’uomo civilizzato e colto, dotato di spirito razionale ed illuminato, ma che nella sua cieca obbedienza alle regole scritte e prestabilite altrove, rivela tutta la propria ignavia etica e morale. Egli vive nel terrore dell’ammutinamento, della ribellione dell’equipaggio, come già accaduto a bordo della nave «Nore», tramutatasi in repubblica galleggiante: cercando conforto nella lettura delle Vite parallele di Plutarco, Vere consuma lentamente la propria tragedia, che lo porta all’ammutinamento finale, quando sarà incapace di proferire parola per salvare la vita di Billy. E proprio Vere apre e chiude l’opera, in un Prologo ed Epilogo che lo vedono solo a cantare in scena il proprio rimorso, o forse la propria autoassoluzione, in un futuro remoto che sembra così distante dai fatti dell’estate del 1797.

Passione repressa, desiderio soffocato e rimosso, e scelleratezza demoniaca che persegue la malvagità come unico sfogo per il veleno oscuro che gli lacera l’anima, sono invece i tratti caratterizzanti l’ultimo dei tre protagonisti del dramma di Britten, il maestro d’armi John Claggart. Innamorato della bontà e della bellezza di Billy, egli si vota alla loro distruzione perché questo è il suo destino, la strada dell’incontro felice non è percorribile. E come canterà nella sua professione di fede al negativo, un’aria satanica e perturbante nella terza scena del I atto, «O beauty, o handsomeness, goodness! You are surely in my power tonight – O bellezza dell’anima, o bellezza del corpo, o bontà! Questa notte sarete di sicuro in mio potere». Reprimendo una passione omoerotica che non può conoscere sublimazione, il maestro d’armi fa crudelmente frustare un Novizio, un giovanissimo marinaio della ciurma, per poi farne il proprio schiavo di compagnia e indurlo ad attirare Billy in trappola. Il Novizio fallisce, ma fornendo il pretesto a Claggart di una presunta ribellione guidata dal marinaio balbuziente, raggiunge comunque il malefico obiettivo del maestro d’armi. Portato a processo di fronte al pilatesco Vere, Billy sprofonda in uno dei suoi attacchi di panico e colpisce a morte Claggart, segnando così la sua condanna definitiva.

In un’opera così densamente simbolica, tratta dal più oscuro (nonché postumo) romanzo di Melville, la regia di Warner punta giustamente sulla dimensione cromatica e sulla definizione di uno spazio. Il palco conosce poche mutazioni, poiché l’ambito claustrofobico del ponte di plancia imprigiona non solo l’equipaggio ma la possibilità stessa di vivere, e di vivere senza esser costretti a frenare quell’afflato positivo che ogni uomo porta dentro di sé. Una piattaforma mobile determina la scenografia, costituendo ora il ponte di comando, dove Claggart tesse la sua oscura trama, ora la sottocoperta dove una serena comunità corale maschile riposa sulle amache appese alla medesima piattaforma rialzata. I costumi, curati da Chloe Obolensky, semplici canottiere rovinate per il troppo lavoro della ciurma, contribuiscono, insieme alle nere ed eleganti uniformi degli ufficiali, al gioco di chiaroscuro che rifulge da un mondo alla deriva nel mare infinito. Il simbolismo sonoro, di forte impianto chiaroscurale anche in questo caso, si esprime nella partitura di Britten attraverso un uso sapiente dei temi conduttori, nella fusione pressoché totale dell’elemento scenico e di quello melodico, e nell’utilizzo di forme canoniche ereditate dalla tradizione, come le arie, i terzetti, le canzoni burlesche dei marinai, ponendo infine in pacifica convivenza sia il cromatismo dissonante che i momenti di ampio e luminoso slancio tonale. L’orchestra ha saputo dosare, grazie alla guida energica ma rigorosa di Conlon, le diverse isole timbriche di cui è costellata la partitura, specialmente nei meravigliosi interludi orchestrali, marchio di fabbrica del compositore britannico. Notevole l’esecuzione dell’interludio che separa le prime due scene del II atto, quando la voce sempre più densa dell’orchestra avvolge la mente di Vere e di tutto l’equipaggio, proprio come la nebbia che impedisce di abbordare la nave francese.

Nonostante tutte le parti soliste e il coro di schiavi redenti dal sacrificio di Budd meritino una lode senza riserve, una menzione d’onore va al protagonista, interpretato da Phillip Addis, dalla luminosa voce baritonale densa di sfumature ed equilibrate colorature espressive, che il pubblico romano ha particolarmente apprezzato nell’aria della III scena del II atto («Look! Through the port comes the moonshine astray»), quando il giovane in catene prevede, sconsolato ma in un’aura di estasi e serenità, la propria fine imminente. I brani vocali di maggior bravura sono toccati al colto capitano Vere, interpretato dal tenore Toby Spence, austero e privo di sbavature, pur calato perfettamente nel profondo dissidio che l’ammiraglio porterà con sé nella tomba. La voce satanica e buia di Claggart è infine toccata al basso John Relyea, cui sono andati i più forti e convinti applausi per l’interpretazione rigorosa e filologica, ma trascinante e annichilente nella sua crudele schiettezza. Britten resta un miracolo del XX secolo, la cui musica anela all’universalità, poiché conoscendo l’oppressione e la persecuzione, ha regalato al mondo e alla storia della musica occidentale una catartica alternativa all’ineluttabilità della fine.

Immagine Ph. Yasuko Kageyama

Professione fotografo: la scena, il mondo, la vita
Fondazione Spinola Banna per l’Arte: Zeno Baldi

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