Il Bergamo Jazz Festival è da 40 anni una delle Rassegne più importanti del panorama italiano. Vocazione internazionale e finestra sul mondo della musica afroamericana, ma anche apertura alla sperimentazione e alle “musiche altre” hanno da sempre contraddistinto la sua ragione d’essere, come ha confermato anche quest’anno la regia artistica di Dave Douglas.
Il trombettista e compositore americano con questa edizione conclude il suo felice quadriennio alla guida del Festival; nel 2020 le redini saranno affidate a Maria Pia De Vito. Una rassegna ricca e variegata, nel quale i nomi eccellenti e i talenti emergenti si sono susseguiti nel denso programma svoltosi tra il 17 e il 24 marzo.
Tra le tante proposte di notevole interesse spiccava la giornata dedicata a Gianluigi Trovesi, gloria orobica del jazz contemporaneo, nato a Nembro in Valseriana, che proprio da qui ha preso le mosse per poi farsi conoscere nel mondo. In occasione del suo 75esimo compleanno, un doppio concerto – Quintetto e Big Band con ospite Manfred Schoof – ha celebrato una delle personalità più rilevanti e originali del jazz europeo. Riflettori puntati anche sulla musica africana di grande caratura nei concerti della cantante e percussionista Dobet Gnahoré e del “Leone d’Africa” Manu Dibango, che ha festeggiato i 60 anni di carriera. Una delle performance più attese, oltre a quella del sassofonista David Murray, era quella della leggenda vivente del Jazz, Archie Shepp che si è esibito nella serata di venerdì 22 marzo. A seguire il concerto di Shepp, sempre dal palco del teatro Creberg, un altro set live di Terence Blanchard con il suo nuovo ensemble elettrico E Collective.
Archie Shepp: il padre del Free Jazz e gli Standards
Nome imprescindibile della storia del jazz, sin dai primi anni Sessanta, Archie Shepp è un’icona non solo musicale. Sassofonista, compositore, studioso e didatta, nonché attore, regista e drammaturgo, Shepp ha profondamente segnato con la sua opera la cultura americana, a partire dal suo enorme contributo alla nascita e allo sviluppo della stagione rivoluzionaria del Free Jazz. Superata la soglia degli ottanta anni, è infatti nato nel 1937 a Fort Lauderdale in Florida, Shepp è tornato in Italia con una nuova edizione del suo quartetto che comprende il pianista francese Pierre-François Blanchard, il contrabbassista ungherese Matyas Szandai e il batterista americano Hamid Drake. Un organico “classico” con il quale Shepp si propone di esplorare e rimeditare la grande tradizione afroamericana. Siamo evidentemente lontani, e non potrebbe essere diversamente, dalla miscela sonora corrosiva, caustica ed incandescente dei suoi lavori dei Sessanta.
Negli anni della maturità il linguaggio di Shepp ha stemperato il suo approccio sperimentale, sublimando le asimmetrie armoniche e le intemperanze timbriche in una nuova e più misurata tensione espressiva. Nella sua ricapitolazione e rivisitazione della grande tradizione afroamericana gli Standards, come è d’obbligo, recitano una parte importante. Il brano d’apertura è “Hope 2”, composto dal grande e un po’ dimenticato Elmo Hope – amico fraterno di Monk, che lo definiva «il più grande pianista del pianeta» – manifesta, sin dalle prime note, l’enorme statura d’improvvisatore di Shepp e la sua aura di Nume della New Thing e del Jazz tout-court. La forma fisica, nonostante la veneranda età, appare ottima e il suo inossidabile stato di grazia creativa ha del miracoloso.
Il secondo brano è l’ellintoniano “Don’t Get Around Much Anymore”, standard che interpreta sia cantando che al sax tenore; la sua voce pastosa e profondamente bluesy è un perfetto pendant al timbro del suo sassofono. Segue un omaggio al genio di Coltrane, per Shepp amico e mentore: è “Wise One”, titolo contenuto in “Crescent” del 1964. Un anno magico il ‘64, lo stesso del suo fondamentale album “Four For Trane”, disco con reinterpretazioni di composizioni di John Coltrane, inciso quasi contemporaneamente ad “A Love Supreme”, il capolavoro coltraniano alle cui sessions prese parte anche Shepp; registrazioni che furono pubblicate integralmente solo nel 2015.
“Une Petite Surprise”, brano originale di Shepp, precede l’altro grande classico del repertorio degli standards che è “Lush Life”, cantato, oltre che suonato, con commovente intensità espressiva. “Revolution” è un poema sonoro e in versi dedicato alla nonna Mama Rose nel quale Shepp, alternando la declamazione al suono del sax soprano, rievoca le tristi condizioni dei neri americani; anche qui lo spirito di Coltrane aleggia nei fraseggi sinuosi e nasali del soprano come negli energici blocchi accordali al pianoforte, che non possono non ricordare il sound di McCoy Tyner. Un altro brano di Ellington “Isfahan’” mette in luce, accanto al lirismo del sassofonista, il florido ma misurato virtuosismo di Pierre-François Blanchard, pianista di notevolissime doti.
Anche gli altri componenti, Matyas Szanday al contrabbasso e il veterano Hamid Drake hanno garantito le fondamenta per un solido ed equilibrato interplay. Ha chiuso la splendida performance, dopo una mini versione di “Well You Needn’t” di Monk, il coinvolgente “Dedication to Bessie’s Blues”, un bluesaccio in si bemolle, cantato e suonato con forte trasporto emotivo; un finale che ha entusiasmato un’audience foltissima. Un concerto da ricordare.
Terence Blanchard, dal cinema all’elettronica
Il secondo concerto ha visto protagonista uno dei più noti trombettisti e compositori dei nostri giorni. Non parliamo solo del jazz contemporaneo. Terence Blanchard è anche uno dei più apprezzati autori di musica per il cinema; nomination e vittorie di Grammy impreziosiscono la carriera di questo musicista, autore di moltissime colonne sonore tra film, serie tv e documentari. In questa sequela di lavori occupano una parte consistente le pellicole di Spike Lee, da “Jungle Fever” (1991) al recentissimo “Blackkklansman” (2018).
Nato nel 1962 nella culla della musica afroamericana, New Orleans, Blanchard si è fatto notare prima con Lionel Hampton e poi nell’”Università dell’Hard Bop” che furono i Jazz Messengers di Art Blakey. Già dai primi Ottanta si era distinto, assieme al suo concittadino Wynton Marsalis, come una delle voci trombettistiche più autorevoli della sua generazione. Partito dai lidi del neo bop, la sua traiettoria musicale si è progressivamente ampliata sino ad includere diverse ramificazioni della Black music. Nel suo ultimo progetto, incarnato da un quintetto elettrico denominato “E Collective”, Blanchard si muove sul terreno di un jazz elettrico a tinte funk, con preponderanti componenti fusion, e in maniera più discreta, di elementi R&B, soul e hip hop.
È un’intrigante crogiuolo musicale; una sorta di compendio crossover sulla stratificazione della musica e della cultura afroamericana dagli anni Settanta ai giorni nostri. La scaletta del concerto, composta da “See Me As I Am”, “Confident Selflessness”, “Everglades”, “Soldiers”, “Unchanged”, “Choices”, è tratta dai suoi due album con l’ “E Collective” cioè “Breathless” (2015), lavoro dedicato alla memoria di Eric Garner, il neroamericano vittima della brutalità della polizia e il più recente “Live” (2018). L’organico strumentale elettrificato, come il suono stesso della sua tromba, mai usata al “naturale”, ma massicciamente processata attraverso l’elettronica (soprattutto con l’uso di Octaver e Delay), non può che rimandare al Miles Davis degli anni Settanta e Ottanta, anche se la musica di Blanchard esibisce notevoli differenze rispetto al modello davisiano.
Mentre il Miles elettrico si presentava con un aggressivo impatto sonoro, armonicamente essenziale e fondato su un massiccio flusso ritmico, le strutture sonore di Blanchard sono invece molto articolate sul versante armonico e formale, come negli impasti timbrici, assai compositi e raffinati. Due aggettivi questi ultimi che calzano appieno al chitarrista Charles Altura, virtuoso dalla grande fluidità di fraseggio e dal timbro liquido, splendido in solo come nel contrappunto armonico. Pregevole anche il contributo del pianista e tastierista Aaron Parks, che nei funambolici interventi solistici ha fatto ricordare, in alcuni frangenti, il compianto George Duke.
Di altissimo spessore la sezione ritmica formata dal bassista David Ginyard, sostanzioso ma parco nel sostegno come nelle incursioni in prima linea. Una menzione speciale la merita il formidabile Gene Coye, emblematico esponente della nuova scuola batteristica U.S.A. di estrazione Gospel; perfetto condensato di tecnica e creatività.
Immagine di copertina Ph. Gianfranco Rota