Le attese del pubblico romano che lo scorso martedì 2 febbraio affollava l’Aula Magna per il recital pianistico di Angela Hewitt nella stagione 2015-16 della IUC (Istituzione Universitaria dei Concerti) sono state pienamente soddisfatte. Un caloroso successo ha infatti accolto l’esibizione della pianista canadese, amatissima in Italia e a sua volta sinceramente affezionata al nostro Paese.
L’artista, diventata giustamente celebre per le sue interpretazioni bachiane, non si sottrae al confronto con un repertorio molto vasto, che si estende dal Barocco al primo Novecento. Nella serata romana la Hewitt ha affrontato un programma in cui ha dominato l’estro clavicembalistico di Domenico Scarlatti. Dal corpus delle 555 composizioni scarlattiane, la pianista ha coraggiosamente scelto 11 fra le sonate più ricche di inventiva strumentale, sperimentazioni armoniche e varietà espressiva, con le quali ha aperto le due parti del recital. A fare da perno, l’ipnotico Bach della Partita n. 2 in do minore BWV 826, mentre la chiusura è stata affidata al Beethoven della Sonata n. 26 in mi bemolle maggiore op. 81a “Les Adieux”.
Le scelte interpretative della Hewitt, prive di compromessi e rivelatrici di una personalità musicale molto decisa e generosa, hanno reso protagonista assoluto della serata il pianoforte (uno splendido Fazioli). Il pianismo della musicista canadese sfrutta le infinite possibilità che lo strumento offre per esaltare sia la scrittura compositiva fortemente idiomatica di uno Scarlatti molto “iberico”, sia il contrappunto scultoreo e la fluidità dei ritmi di danze francesi della Partita di Bach.
In Scarlatti, pur risultando molto convincenti l’inflessione “spagnoleggiante” della Sonata in re minore K9 e di quella in do maggiore K 159), così pure la fascinosa dinamica della Sonata in si minore K 377 o le premonizioni beethoveniane della K 513 in do maggiore, la Hewitt ci è sembrata tuttavia non completamente a suo agio. Nonostante le sue eccellenti doti tecniche, la pianista non ha forse ancora trovato un modus interpretativo che aderisca con immediatezza alla musicalità sfavillante o cantabile di Scarlatti.
È in Bach che il suo talento di musicista intelligente e speculativa emerge con assoluta pienezza: un’interpretazione sorvegliata, trasparente, ipnotica e commovente allo stesso tempo, in cui le voci del contrappunto bachiano si stagliano in tutta la loro plasticità. Affascinante il modo in cui nelle riprese delle diverse danze della Partita n. 2 in do minore siano stati svelati nuovi elementi nell’ordito polifonico, quasi varianti contrappuntistiche ottenute attraverso la varietà timbrica e dinamica. Una menzione speciale meritano l’Allemande, in cui fluidità, misura e raffinatezza hanno disegnato una delicata filigrana, e la Sarabande, introspettiva e sospesa, prima dello scatto di humor del Rondeau.
Un Beethoven poco intimista e molto “teatrale” ha concluso l’esibizione. In questo caso la pianista ha scelto di evidenziare la discontinuità, i dettagli e gli “eccessi” espressivi piuttosto che la chiarezza strutturale e l’intimismo della Sonata n. 26. L’interpretazione è risultata, a nostro parere, un po’ forzata, quasi manierata, a tratti superficiale (ad esempio nell’Andante espressivo Die Abwesenheit, L’assenza) e tuttavia molto apprezzata dal pubblico in sala, colpito dall’agile danza delle dita nel finale frenetico (Vivacissimamente) dell’ultimo movimento, Das Wiedersehen (Il ritorno).