Nel repertorio operistico italiano vi sono alcuni titoli che lasciano un segno indelebile nella memoria e nell’immaginario collettivo, divenendo dei veri e propri capisaldi di una tradizione culturale e identitaria, che ancora oggi identifica il nostro spazio nel mondo.
Tra questi titoli è doveroso annoverare anche Tosca, il melodramma in tre atti su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, composto da Puccini negli ultimissimi anni dell’Ottocento, basato sull’omonima opera teatrale di Victorien Sardou. Quando si parla di Tosca, riemergono subito alla memoria le vivide immagini della Roma papalina, gli scenari monumentali in cui la storia di passione, amore, politica e tradimento si consuma, e l’intero repertorio cinematografico che ha consolidato l’enorme fortuna dell’opera; ma, ovviamente, tornano a mente anche le melodie più famose, i versi più affascinanti, le arie e i duetti che costellano l’intera opera, costruita principalmente sui dialoghi e le interazioni tra i diversi personaggi.
Tutto ciò ha un ascendente particolare sul pubblico capitolino, data la forte caratterizzazione romana della storia, dei luoghi e dei personaggi: questo spiega come mai il titolo pucciniano sia tra i più fecondi quanto a numero di presenze nel cartellone del Teatro dell’Opera di Roma, analogamente a quanto avviene ad esempio con Traviata alla Fenice di Venezia.
La quinta opera di Puccini, del resto, fu rappresentata per la prima volta proprio al Teatro Costanzi (oggi Teatro dell’Opera), alla presenza di importanti personalità politiche dell’epoca e dello stesso compositore: era il 14 gennaio del 1900, per tutta la sera si temette lo scoppio di una bomba o un qualsiasi altro attentato, ed un secolo esatto era passato dalla caduta di quella Repubblica Romana di cui il pittore Cavaradossi è fervente sostenitore nell’opera, e altrettanto dalla restaurazione pontificia e dalla battaglia di Marengo, che vide vittoriose le armate napoleoniche e che costituisce la narrazione storica di sottofondo.
La Tosca andata in scena al Teatro dell’Opera di Roma dal 14 al 24 ottobre scorsi, proprio a quella rappresentazione si ispira, riconnettendo idealmente la première dell’opera e la portata simbolica e culturale che tuttora rappresenta, anche a distanza di più di un secolo.
Con la regia di Alessandro Talevi, infatti, è stato riproposto, sul palcoscenico originario, lo storico allestimento di quel lontano 1900, basandosi sui bozzetti rappresentanti le scene e i costumi utilizzati allora, tutti documenti perfettamente conservati presso gli archivi di Casa Ricordi a Milano. Grazie a questi documenti si sono potute ricostruire le ambientazioni, i grandi fondali dipinti, gli oggetti di scena e i costumi (molti dei quali rinvenuti proprio nei magazzini del teatro romano), che sono tornati a vivere su quello stesso palcoscenico dove furono usati all’epoca, sotto la direzione dello scenografo e pittore Adolf Hohenstein.
Per gli occhi del pubblico romano, abituato a vedere sempre più spesso regie audaci, sperimentali, e fortemente innovative, è stato senza dubbio un bel tuffo nel passato, che ha aiutato a comprendere quanto la regia fosse all’epoca di Puccini qualcosa di assolutamente non invasivo, ma semplice attuazione teatrale di tutte quelle didascalie, istruzioni e avvertimenti presenti nel libretto o caldamente consigliati dal compositore-regista. In ossequio a questa tradizione storica, si è optato per una essenzialità drammaturgica, con pochi movimenti e una gestualità minimale, persino nei momenti più grandiosi (il grande quadro del Te Deum intonato nella basilica alla fine del primo atto, il momento più affollato dell’intera opera), o in quelli più disperanti (le ore notturne che precedono alla fucilazione di Mario Cavaradossi).
Una essenzialità che non significa affatto rinuncia alla regia, ma spoliazione di ogni trovata effettistica e di ogni orpello sovrastrutturale, come la prima rappresentazione dovette essere: forse a noi oggi fa sorridere vedere Tosca e Mario impalati a scambiarsi tenerezze, così come le guardie pontificie immobili mentre Tosca maledice un’ultima volta il nome del suo carnefice, ad aspettare un po’ annoiate che si butti giù dal parapetto.
Ma questa fu senza dubbio la prima dell’opera, poiché la partitura di Puccini era pensata per colmare, alludere, indicare e suggerire ogni espediente drammatico, ogni situazione scenica, ogni rimando al colore storico dell’epoca, presentandosi di per sé come autosufficiente per la realizzazione drammaturgica dell’opera (e questa è forse una delle più grandi qualità della musica operistica pucciniana).
La scelta di riproporre lo storico allestimento può sembrare quindi un’operazione di eruditismo archeologico, quando invece l’intento è tutt’altro, e il fine senza dubbio educativo: da un lato si ricostruisce una memoria storica di ciò che è stato il teatro d’opera italiano, ancora agli albori del secolo scorso, portando come esempio una partitura e un compositore tutt’altro che tradizionalista, anzi non a caso nettamente «moderno»; dall’altro si attua con rigore filologico una ricostruzione dell’impatto che tale dramma passionale e politico esercitò sul pubblico romano, impatto che però ci immaginiamo attraverso le lenti di spettatori contemporanei, anche un po’ offuscate da decenni di narrazione retorica e di ipostatizzazione che Tosca ha conosciuto.
Abituato a vedere proiezioni video, macchinari pirotecnici, sovrapposizioni di colori e immagini sempre più ardite, l’occhio del pubblico romano ha forse riacquistato una quiete contemplativa (speriamo mai passiva!) nel vedere le tre grandi tele dipinte e ricostruite fedelmente, che come gli acquarelli romani di Achille Pinelli, semplicemente presentano gli ambienti dei tre atti: la navata centrale di Sant’Andrea della Valle nel primo, la sala interna di Palazzo Farnese nel secondo, dotata di porta d’ingresso e enorme finestra socchiusa, da cui si sentirà Tosca cantare mentre Mario viene condotto in manette, e infine la grande terrazza di Castel Sant’Angelo nel terzo, con veduta sulla grande cupola di San Pietro, una perfetta cartolina certo non sconosciuta a Puccini, che su quella terrazza salì per ascoltare il paesaggio sonoro urbano dominato dai rintocchi delle campane.
Grande successo e applausi a scena aperta per tutti e tre gli interpreti principali: una menzione speciale va al baritono Luca Salsi, che ha interpretato con demoniaca lucidità il ruolo dello spietato capo della polizia pontificia, il barone Scarpia, rappresentante di quel male inestinguibile che perseguita Tosca anche dopo che essa l’ha ucciso, trascendendo quindi i confini materiali dell’esistenza. La voce sicura e potente, piena di colore ed espressione, non ha mai faticato a sovrastare un’orchestra al massimo della sua sonorità, orchestra spesso impegnata nell’elaborazione e variazione dei motivi conduttori di Scarpia.
Applausi anche per il soprano Virginia Tola, che non per la prima volta interpreta Tosca nel teatro romano, la cui voce colma di effusività lirica e di sfumature carezzevoli ha dato vita a momenti molto intensi, primo tra tutti, ovviamente, l’aria del secondo atto, «Vissi d’arte, vissi d’amore», al cui varco tutto il pubblico romano l’attendeva. Forse si poteva dare maggiore attenzione alla realizzazione espressiva della natura estremamente impulsiva e volitiva della donna Tosca, spesso un po’ trascurata: Tosca, infatti, non è solo una cantante vanitosa e gelosa, né tantomeno un’eroina tragica verdiana, ma appunto proprio una donna, descritta da Sardou e poi dalla musica di Puccini proprio negli anni in cui sorgevano le false credenze sull’isterismo femminile.
Giorgio Berrugi, infine, ha interpretato il ruolo di Mario Cavaradossi, pittore amante di Tosca e campione della libertà repubblicana, vero eroe positivo del dramma: anche qui il pubblico ha atteso fremendo la romanza più famosa dell’opera, «E lucevan le stelle», cui il tenore ha saputo dare il giusto sfogo lirico, non eccessivo, come la partitura di Puccini suggerisce, passando gradualmente dalla sezione declamata al vero e proprio tema melodico sostenuto a piena orchestra. La voce, limpida e diretta, ha forse un po’ sofferto, dato anche il cospicuo numero di duetti con gli altri personaggi, proprio nei momenti in cui l’orchestra era più coprente.
Un’ultima menzione spetta proprio all’orchestra, diretta dalla sicura bacchetta di Jordi Bernàcer, che ha dato un taglio «wagneriano», tonante e sontuoso, all’intera partitura pucciniana, specialmente nell’uso di quei motivi conduttori, ancora oggi modernissimi, in cui l’impiego dell’organico orchestrale è raffinatissimo; e si pensi soltanto ai famosissimi tre accordi, poderosi e strazianti, che costituiscono il «tema di Scarpia» e che aprono l’opera, ripresentandosi successivamente in diversi momenti cruciali. L’orchestra ha interpretato bene il suo ruolo da protagonista attivo, che è poi ingrediente essenziale dell’opera verista e dell’estetica pucciniana, in cui parte vocale e parte orchestrale sono necessariamente equipollenti.