Bologna celebra l’anno monteverdiano con alcune interessanti iniziative estive. Ad un applaudito “Vespro della beata vergine”, già proposto nella chiesa di San Giovanni da Monte l’11 luglio, seguirà il 21 luglio un allestimento del “Ritorno di Ulisse in patria” ai chiostri dell’Archiginnasio.
La scelta di proporre quest’opera nella splendida cornice dell’antica sede accademica, gioiello della città, risulta particolarmente calzante. L’ensemble strumentale ed il coro della Cappella musicale di san Petronio, guidati da Michele Vannelli, direttore al cembalo, affiancherà i vincitori del concorso di canto “Corti, chiese, cortili ENCORE”. Ripercorrendo i libri XII e XIII dell’Odissea, Giacomo Badoaro, punta di spicco della libertina Accademia degli Incogniti, fornisce a Monteverdi un libretto eterodosso e ricco di spunti intriganti.
Molto attesi alcuni momenti memorabili dell’opera, la cui efficacia si deve per l’appunto ad una indissolubile unione di intenti fra verso e musica monteverdiana: dall’iniziale lamento di Penelope, al duetto di Melanco ed Eurimaco, fino al grottesco “lamento comico” di Iro.
Edonismo, sottili allusioni, scene sovrannaturali ed esotiche, gustosi calembours permettono di calarsi nella Venezia libertina di metà Seicento, una città che ha bandito i gesuiti e celebra la sua ascesa economica e culturale “creando” il fenomeno opera. Il Ritorno di Ulisse in patria è impregnato di questo clima, racchiudendo anche uno strepitoso esempio di parte “comica”, l’unica monteverdiana di cui disponiamo oggi: quella di Iro, buffone di corte e spassoso intrattenimento dei Proci. Monteverdi carica il personaggio di tutti i caratteri propri della comicità, validi nel seicento come oggi: dalle effusioni patetiche alle tirades sproporzionate, ai discorsi frammentari, ai gesti bizzarri.
E specchio degli spettatori veneziani, il pubblico odierno ride ancora, divertito dallo straziante lamento nel quale Iro, fedele servo ed animatore dei divertimenti proci, si ritrova senza più prodighi padroni e disperato ne rimpiange la fine in una parossistica, scanzonata trenodia. In questo modo il lamento di Iro, stupenda parodia di una tradizione, quella della lamentio letteraria, che affonda le sue origini nella classicità latina, riporta il pubblico bolognese di oggi alla Venezia di metà Seicento, epoca in cui l’opera monteverdiana nasceva e veniva messa in scena, ma altresì ribadisce l’intrinseca attualità di questo capolavoro, interessante e godibile oggi quanto nel Carnevale 1640.
La messinscena è affidata al regista e costumista Alberto Allegrezza, le coreografie per il ballo dei Mori a Davide Vecchi.
Foto di copertina: il cortile dell’Archiginnasio di Bologna