Ormai alla vigilia di Trame sonore – Mantova Chamber Music Festival, che si terrà dal 31 maggio al 4 giugno nella città lombarda, l’occasione di un’intervista con Alexander Lonquich diventa un’opportunità per parlare della sua storia con l’Orchestra da Camera di Mantova, del percorso artistico che l’ha portato a diventare uno dei principali solisti-direttore del panorama internazionale ed infine della particolare manifestazione mantovana. Il tutto si arricchisce delle riflessioni sul repertorio che contraddistinguono il raffinato interprete.
Maestro Lonquich, com’è iniziato il suo rapporto con l’OCM come solista e direttore?
«Ho conosciuto l’Orchestra da Camera di Mantova tanti anni fa, mi pare fosse l’86 o 87, eseguendo l’ultimo concerto di Mozart con Umberto Benedetti Michelangeli, al quale sono legato da un’amicizia profonda, e ho percepito fin da subito con l’orchestra un’affinità di intenti, stile e approfondimento del dettaglio che allora era veramente rara. Anche adesso penso che l’OCM sia unica in Italia; unica per un certo modo artigianale del creare le premesse del poter realizzare il dipanarsi della musica , lavorando punto per punto, un modo con cui mi sento molto a mio agio. Ad un certo punto, seguendo l’evoluzione che mi ha portato a voler fare i concerti “classici” senza direttore, abbiamo iniziato un nuovo percorso insieme, prima sporadicamente e poi sistematicamente con i concerti di Mozart a Roma, a Cremona, l’integrale a Firenze, poi l’esecuzione di tutti i concerti di Beethoven, fino ad arrivare a Shostakovich, Chopin e altri ancora. Per me, la concezione appunto cameristica dell’OCM nell’affrontare tutto il repertorio, a partire da quello settecentesco, è stata davvero un modello di lavoro. Spero che questo rapporto, nonostante la crisi nei finanziamenti, possa continuare a lungo!».
Come si è svolta dunque la sua evoluzione da pianista a pianista-direttore e quali sono le questioni che pone di fronte ad un’interprete questa duplice attività?
«La mia storia familiare (mio padre era pianista, compositore, direttore) mi ha portato a considerarmi innanzitutto musicista prima che pianista. Nel corso dell’esperienza concertistica, poi, mi sono sempre più convinto che la formula cameristica, perché tale la concepisco anche nei concerti solistici, sia da privilegiare, apra a più possibilità, soprattutto in una realtà come quella dell’OCM in cui i musicisti sono veramente capaci di ascoltare. Il rapporto diretto che si forma diventa essenziale, permettendo di modificare, se capita di poter ripetere il programma, dei dettagli di volta in volta, penso in particolare alla scrittura mozartiana, in cui la parte pianistica è spesso esile e inserita in un discorso nel quale il solista è una sorta di primus inter pares. Le connessioni esistenti tra il solo di un fiato, un intervento degli archi e la parte del pianoforte così si fanno palesi. L’esigenza di dialogo tra l’orchestra e il solista nasce dalla musica stessa e si sviluppa appunto di volta in volta proprio con la composizione alla mano, scoprendo sempre nuove soluzioni. Un esempio può essere anche il Primo Concerto per pianoforte di Shostakovich, opera concepita per soli archi, che suoneremo a Trame Sonore il 4 giugno. Ad esempio nel secondo tempo, con l’OCM abbiamo cercato oltre la stretta logica musicale interna, un paesaggio sonoro corrispondente all’immaginario di povertà, ambientazioni notturne, luci spente, strade deserte che rispecchiano il socialismo reale, scenario che anche io ho avuto l’occasione di vedere di persona prima della caduta del muro di Berlino. Cosa per nulla scontata. Quante volte ho dovuto constatare che purtroppo i limiti della collaborazione solista/direttore erano stati stabiliti dall’implacabile “lei lo fa più lento o più veloce?” Sempre parlando di Shostakovich, un altra particolarità consiste nel rapporto con la tromba: io ho una particolare predilezione per l’utilizzo di un po’ di vibrato russo da parte di quello strumento, ricercando un suono quasi circense, l’espressione di un umorismo amaro e sognante, quasi felliniano. La tromba, poi, qui ha una strana funzione: è un personaggio che entra ed esce dall’orchestra, come solista è a volte un po’ spavaldo, a volte un po’ timido, per poi farsi improvvisamente protagonista sul serio e donarci un solo esteso e struggente come quello del secondo movimento. Passare da questa pratica d’approfondimento alla direzione vera e proprio di un certo repertorio sinfonico è stata poi una conseguenza intrinseca alla mia indole».
Già che ha citato il concerto conclusivo di Trame sonore, parliamone. Questa non è la prima volta che lei partecipa a questo festival particolare di cui è anche artista in residence. Quali sono le sue riflessioni in merito al progetto?
«In questo momento partecipo principalmente a due festival all’anno che hanno le caratteristiche della “full imersion” in comune, pur essendo molto diversi l’uno dall’altro: il festival di Lockenhaus in Austria e Trame sonore a Mantova. Il Festival di Lockenhaus, gestito dal violoncellista Nicolas Altstaedt, è dissimile da quello di Mantova perché prevede una ventina di musicisti che suonano insieme per dieci giorni, c’è un’intimità e un lavoro in loco testimone di uno scavo intenso, quasi esasperante. Trame sonore, invece, è un festival singolare da un altro punto di vista, con una marea di partecipanti, ed è anche per l’ascoltatore un’immersione a tempo pieno nella musica che risuona ad ogni angolo di strada a tutte le ore. Una persona che abbia voglia di passarci qualche giorno entra e esce dai concerti in continuazione, come ubriacandosi di bellezza, non per ultimo per via degli spazi in cui si svolge. Si instaura contemporaneamente un senso di quotidianità e di meraviglia, anche perché si possono seguire i percorsi dei musicisti da vicino, incontrandoli anche in piazza. Aggiungo però una mia riflessione, che mi viene spontaneo fare sempre quando parlo di questi eventi: sono entrambi festival in cui tutti i musicisti partecipano gratuitamente e sotto questo aspetto non credo siano un modello da seguire. Sono degli unicum nati sotto condizioni molto particolari e tali dovrebbero rimanere. Niente però impedisce che anche in occasioni di iniziative dove chi suona viene giustamente retribuito si possa arrivare a una programmazione più fantasiosa. Mi viene in mente la “Notte lunga della musica” a Francoforte o “Gemischter Satz” a Vienna, dove ho appena collaborato, in cui in varie sale avvengono concerti di seguito e contemporaneamente, seguendo degli schemi narrativi ben mirati a un’alterazione del percepire ordinario, contrapponendo testi e spesso anche generi musicali di solito ritenuti inconciliabili. Insomma, c’è ancora tanto da scoprire!».